Emilio Salgari - La città del re lebbroso

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«Domani anche il mio corpo sarà là,» disse. «No, Lakon-tay non deve sopravvivere alla sua disgrazia. Siano maledetti i vili che hanno uccisi i S’hen-mheng ! Che la maledizione di Sommona Kodom li perseguiti in questa e nell’altra vita. Len-Pra mi perdonerà di averla privata del padre e comprenderà che la mia morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che l’attende.»

Un grido che echeggiò in quell’istante proprio sopra il tetto della casa lo fece trasalire.

«L’uccello della notte si è posato sulla mia phe ,» disse con un triste sorriso. «Forse l’anima di mia moglie. Sì, vengo a raggiungerti.»

Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.

Capitolo IV. Il dottore bianco

La stanza del generale era ampia e arredata con molto buon gusto, quantunque predominasse in tutti i mobili lo stile cinese piuttosto che il siamese.

Le pareti erano coperte di quella meravigliosa carta di seta, con fiori, uccelli, lune e draghi, così cara ai Cinesi; il soffitto era tutto scolpito e dorato, il pavimento di porcellana a disegni stravaganti, che raffiguravano animali fantastici. Alle finestre ricche tende di seta verde cupe, nel mezzo un ampio letto di forme massicce, con coperte di seta e una zanzariera poi qua e là, negli angoli e lungo le pareti, divanetti, mobili leggerissimi laccati ed incrostati d’avorio e d’argento, poi vasi giapponesi e Cinesi, e vasi Siamesi d’oro, meravigliosamente cesellati; e di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Sommona Kodom.

Appesi alle pareti, disposti con un disordine pittoresco, si vedevano tondi istoriati di antichissima porcellana, armi di varie specie, e drappi preziosi tempestati di rubini, che ricordavano nei loro disegni e nelle loro tinte gli splendidi tessuti dei Birmani.

Lakon-tay, appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola d’argento, si vedeva una larga spada dalla lama diritta a due tagli, colla guardia piccolissima, specie di enorme rasoio. Era la sua catana di guerra, un’arma di fabbrica giapponese, taglientissima, già tinta e ritinta un tempo nel sangue dei Birmani e dei Cambogiani.

La impugnò con mano ferma e la guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada azzurra che ardeva proprio sopra il letto; poi, senza che un muscolo del suo viso trasalisse, se l’accostò alla gola.

Ad un tratto però abbassò l’arma, poi la gettò su uno dei divanetti.

«No,» disse. «Il sangue farebbe troppa impressione alla dolce Len-Pra.»

Stette un momento irresoluto, poi si diresse verso un tavolino giapponese, su cui stavano parecchi vasi di porcellana, delle tazze e delle caraffe piene d’acqua e di liquori.

«La morte mi coglierà nel sonno,» mormorò.

Aprì uno di quei vasetti e ne tolse una palla di colore brunastro, grossa come una piccola noce di cocco, che tagliò a metà con un coltello dal manico d’oro. Levò dall’interno, che era un po’ molle, un pezzetto che gettò in una tazza già piena d’acqua.

Mescolò per alcuni minuti finché quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la vuotò d’un fiato.

Poi attraversò la stanza, sempre calmo, sempre impassibile, e si adagiò sul letto, mormorando: «Addio, mia dolce Len-Pra. Possa la mia morte placare la collera del re e salvarti dalla schiavitù.»

Un tremito scosse il suo corpo.

«Ecco il sonno eterno che si avanza,» mormorò ancora.

E chiuse le palpebre divenute pesantissime, mentre sulla veranda l’uccello della notte faceva echeggiare per tre volte di seguito il suo funebre grido.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Feng, il paggio affezionato, che nutriva verso il generale una devozione senza limiti, aveva intuito che Lakon-tay maturava nel suo cervello, eccitato dalla disgrazia che ormai stava per coglierlo, un triste disegno.

Già, nel Siam, il suicidio è cosa comune quanto nel Giappone. Un alto personaggio che cade in disgrazia, difficilmente osa affrontare la derisione dei personaggi che un giorno gli furono inferiori, e non sa rassegnarsi alla caduta.

Preferiscono suicidarsi, perché fra i Siamesi, cosa davvero inesplicabile per un popolo che si fa un dovere di non uccidere l’animale più nocivo e di non schiacciare il più vile insetto, il suicidio è considerato come un trionfo ed una sublime virtù.

Anzi colui che si impicca è perfino creduto degno di pubbliche lodi, chissà per quali strane e vecchie costumanze, e si decreta al suo cadavere un’apoteosi.

Feng, che era stato raccolto ancora fanciullo sui confini del Laos, in un villaggio di selvaggi Stienghi devastato dalla guerra, conosceva ormai da troppo tempo il suo padrone per non indovinarne i pensieri. Il suo istinto d’uomo selvaggio l’aveva avvertito che una ben più grave disgrazia stava per piombare sulla casa e colpire soprattutto la dolce Len-Pra.

Quindi, appena terminata la cena, si era celato fra i vasi di peonie che abbellivano la veranda, deciso a impedire al padrone di sopprimersi.

L’aveva veduto soffermarsi sulla terrazza, aveva udito le sue parole, aveva udito pure il funebre grido dell’uccello della notte che presagiva una imminente disgrazia.

Non osando però seguirlo appena era entrato nella stanza, non aveva avuto il tempo di vederlo prendere la catana ; era giunto invece dinanzi ai vetri della porta quando il generale stava vuotando la tazza.

Dapprima credette che avesse trangugiato un bicchiere d’acqua o di trau, ma vedendolo poco dopo sdraiarsi sul letto e rimanere immobile, come fulminato, il sospetto che avesse bevuto qualche veleno gli balenò istantaneamente nel cervello.

Risoluto a strapparlo a qualunque costo alla morte, il bravo giovane, in preda ad un profondo turbamento, spinse poderosamente la porta, la quale, non essendo stata chiusa internamente, cedette al primo urto. In due salti fu presso il letto.

Lakon-tay, pallidissimo, coi lineamenti solo un po’ alterati, dormiva o pareva dormisse profondamente. Il suo respiro però era affannoso e attorno ai suoi occhi cominciava ad apparire un cerchio azzurrastro.

«Che cosa può aver bevuto il mio padrone?» si chiese Feng con angoscia.

Si precipitò verso il tavolino su cui stava ancora la tazza, e un grido gli sfuggì: Aveva scorto la palla di materia brunastra tagliata in due, che Lakon-tay non aveva più ricollocata nel vaso di porcellana.

«Ha bevuto dell’oppio disciolto nell’acqua!» esclamò. «Disgraziato padrone!»

Si precipitò fuori della stanza, attraversò in un lampo la veranda ed entrò come una bomba nel salotto.

Len-Pra, inquieta per i discorsi fatti dal padre, vi era tornata, non essendo riuscita ad addormentarsi. Anch’essa aveva udito le grida dell’uccello notturno e, superstiziosa al pari delle sue compatriote, le era balenato il pensiero che una disgrazia stesse per piombare sulla casa.

Vedendo entrare Feng cogli occhi dilatati dal terrore, il viso sconvolto, ansante, mandò un grido.

«Feng!» esclamò. «Che cos’hai?»

«Un medico, signora… tuo padre… suicidato… l’oppio…»

«Qui!… di fronte!… dallo straniero dalla pelle bianca… Ah! Padre mio!»

Feng era già nel vestibolo, urtando i servi che accorrevano da tutte le parti perché avevano udito il grido di Len-Pra. Scese a precipizio i gradini e si slanciò nella via.

Di fronte alla phe del generale, s’alzava un’elegante palazzina di legno, col tetto acuminato e le grondaie arcuate, di stile più cinese che siamese, e colla solita veranda.

Feng salì rapidamente i tre gradini, e col manico del coltello, che teneva nella fascia, percosse fragorosamente ed a più riprese il disco di bronzo sospeso sopra la porta, gridando contemporaneamente:

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