Emilio Salgari - La rivicità di Yanez

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– Buono a sapersi.

– Disgraziatamente gli animali da nutrirsi sono troppi.

– Dimmi la tua idea franca e precisa. Nelle nostre condizioni che cosa faresti?

– Io non mi moverei di qui finché ci sono cavalli, elefanti e topi da divorare. Sindhia finirà per stancarsi e se ne andrà.

– E noi a piedi?

– Non so che cosa dire, Altezza. Voi siete altri uomini, mentre io potrei rimanere assediato per anni ed anni senza morire di fame. D’altronde vi siete persuaso che i topi, bene arrostiti, non sono poi da disprezzarsi.

– Oh, no, ma finirebbero per nauseare – rispose Yanez.

Il baniano alzò le spalle e continuò la marcia, con maggior rapidità, sbattendo, di quando in quando, a terra la torcia che portava.

Il drappello percorse altre lunghissime gallerie che né i secoli né l’umidità avevano guastate, tutte ampie e discretamente arieggiate. Regnava però un calore ancora intenso prodotto dall’enorme ammasso di carboni che aveva coperto le vie della capitale.

Dopo un altro quarto d’ora sboccarono in una nuova rotonda, assai piú ampia della prima, e dopo pochi minuti in un’altra ancora perfettamente asciutta.

– Siamo a poca distanza dal sotterraneo – disse il cacciatore di topi.

Stava per imboccare un’altra galleria, l’ultima, quando si fermò tendendo gli orecchi.

– Che cosa hai udito? – gli chiese Yanez, togliendosi dalle spalle la carabina.

– Un passo d’uomo.

– Tu sogni. Sarà qualche esercito di topi affamati.

– No, Altezza: io ho troppo vissuto in queste cloache, e non posso ingannarmi.

– Che abbiano scoperto il passaggio?

– Non lo so: il fatto è che un uomo si avanza.

– Io non vedo nulla.

– La galleria qui descrive una gran curva, Altezza. Quell’uomo non tarderà a mostrarsi.

– Andiamo innanzi o ci fermiamo?

– Sarà meglio attendere, gran sahib.

– Spegnete subito la torcia, allora.

Fu prontamente obbedito, ed il drappello si strinse puntando le carabine, e deciso poi a gettarsi innanzi colle scimitarre.

Tutti si erano messi in ascolto e non tardarono a udire un passo che l’eco della galleria trasmetteva distintamente.

– Tu non ti eri ingannato – disse Yanez al cacciatore di topi. – Fortunatamente pare che non si tratti che d’un solo uomo.

– Sí, d’uno solo, Altezza – rispose il baniano. – Non deve essere lontano.

– Anzi, piú vicino di quello che potete immaginarvi. Ah!… Vedete?

Una lampada era comparsa allo svolto della galleria, e subito l’uomo che la reggeva.

Yanez ed il cacciatore di topi mandarono due grida:

– Kiltar!…

– Sí, sono io – rispose il bramino, avvicinandosi rapidamente. – Non credevo di trovarvi qui.

– Tu sei entrato da un sotterraneo? – gli chiese Yanez.

– Sí, d’un grande palazzo che un giorno era stato abitato, se non m’inganno, da uno dei vostri ministri.

– Quali nuove rechi?

– Gravi, Altezza – rispose Kiltar, il cui volto si era offuscato. – Sindhia lavora attivamente alla vostra perdita.

– In quale modo?

– Un gran numero dei suoi uomini sono stati mandati nelle jungle a far raccolta di grossi bambú.

– Non saprei a che cosa gli possono servire. Forse a riedificare la capitale? Riuscirà un bel villaggio facile a bruciarsi.

– Non scherzate, Maharajah. Quei bambú serviranno come conduttura d’acqua.

Yanez aggrottò la fronte.

– Vorrebbe tentare di annegarci? E dove prenderà l’acqua?

– Io non so, ma pare che i suoi fakiri abbiano scoperta una grossa sorgente.

– Ci vorrà del tempo prima che si costruiscano tante condutture. E poi non credo che queste cloache siano facili ad inondarsi, avendo per scolo il fiume nero. Sindhia ed i suoi uomini perderanno inutilmente il loro tempo.

– E se riuscissero nel loro intento?

– Allora, prima di lasciarci annegare come tanti topi, attaccheremo a fondo, alla disperata; perciò abbiamo bisogno assoluto di conservare i nostri elefanti e quanti piú cavalli potremo.

– Ma quelle bestie non potranno mai passare per queste gallerie – disse il bramino.

– Lo so, e non sarà da questa parte che noi attaccheremo.

– Dove andrete allora?

– In cerca di fogliame per gli elefanti che soffrono piú dei cavalli. Vi sono truppe al di là dei bastioni?

– In certi luoghi sí, ma io vi farò passare attraverso le muraglie degli antichi giardini che hanno resistito al fuoco. Qualche cosa della vostra capitale è rimasto, ma ben poca cosa.

– Il palazzo reale è crollato?

– Distrutto completamente. Anche tutti i palazzi, le pagode, le moschee sono state sfasciate dal fuoco.

– Orsú, non perdiamo tempo, gran sahib – disse il cacciatore di topi. – Dobbiamo ritornare prima dell’alba.

– Hai ragione – rispose Yanez. – Riaccendete le torce.

Il drappello si rimise in marcia, affrettando il passo. La galleria saliva rapidamente e conservava ancora un forte calore sebbene fossero passati tanti giorni dall’incendio.

Cinque minuti dopo i sedici uomini entrarono in un vasto sotterraneo che non doveva aver mai fatto parte delle cloache.

Delle pareti, calcinate dal fuoco, erano crollate, e un’apertura assai larga si era formata.

– Ci siamo – disse il bramino. – Una scala e saremo all’aperto.

– Non ci saranno soldati dispersi fra le rovine?

– Non ho veduto che qualche affamato.

– Ah! …

– Che cosa avete, Altezza?

– Stanno tutti bene al campo di Sindhia?

– Per ora sí.

– Malgrado la rottura di quelle due bottiglie?

– Sí, Altezza. Forse la malattia si svilupperà piú tardi.

– Può darsi. Aspetteremo.

Attraversarono il sotterraneo, giunsero ad una scala di pietra e si trovarono all’aperto fra una immensa quantità di macerie.

– Povera la mia capitale!… – disse Yanez. – Eppure non potevo fare a meno di distruggerla per trattenere gli assalti di Sindhia.

«Senza questo gigantesco incendio, non avrei potuto attendere l’arrivo di Sandokan.»

Kiltar si era fermato dietro ad una muraglia tutta nera, e pareva che cercasse di orizzontarsi fra quel caos immenso di rovine.

– Seguitemi – disse ad un tratto. – Non faremo cattivi incontri, ma è necessario che spengiate voi le torce ed io la mia lampada. Riaccenderemo piú tardi le une e l’altra se ne avremo bisogno.

Ascoltò per qualche momento, poi si mise in marcia, seguendo la muraglia, la quale pareva che si stendesse in direzione dei bastioni.

Un silenzio immenso regnava sulla città distrutta. Pareva che fosse diventata la città dei morti.

Tuttavia, in lontananza, fra le tenebre, brillavano numerosi fuochi i quali indicavano gli accampamenti dei banditi di Sindhia.

Il drappello affrettava la marcia, procedendo in fila indiana, colle carabine montate.

Fra tutte quelle rovine regnava ancora un gran calore. Si sarebbe detto che in certi luoghi, anche dopo tanti giorni, il fuoco covava ancora.

Ed infatti, di quando in quando, delle folate d’aria ardentissima, soffocante, si abbattevano sul drappello, arrestandolo nella sua marcia per qualche minuto ed anche piú.

– Mi chiameranno il Nerone dell’India – disse Yanez. – Io però dovevo salvare la mia pelle.

Finalmente i bastioni comparvero. Erano ridotti in uno stato miserando a cagione dello scoppio delle polveriere.

Squarci giganteschi, ingombri in parte di rottami, si scorgevano qua e là, ed erano cosí larghi da permettere il passaggio anche di una grossa colonna d’assalto.

Kiltar che pareva conoscesse la città meglio del Maharajah e perfino del rajaputo, guidò il drappello attraverso ad uno squarcio enorme, sui cui margini si stendevano delle casematte completamente sventrate, e lo condusse in aperta campagna.

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