Emilio Salgari - Le due tigri

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– Povera fanciulla! – disse Sandokan, avvicinandosi a lei. – Non eri certo nata sotto una buona stella, ma noi penseremo al tuo avvenire. La Tigre della Malesia non abbandona gli amici.

– Voi siete buoni, – rispose Surama, la cui voce ancora tremava.

– Tu non tornerai mai piú fra i Thugs, né sarai piú una danzatrice. Ormai sei sotto la nostra protezione.

Poi cambiando bruscamente tono:

– Che tu sappia, fanciulla, i Thugs posseggono delle navi?

– Non lo so, sahib – rispose la fanciulla. – Ho veduto, quand’ero a Rajmangal, delle scialuppe navigare sui canali delle Sunderbunds, ma navi mai.

– Perché questa domanda, Sandokan? – chiese Yanez.

– Sono giunte or ora due grab e si sono ancorate presso di noi.

– Che cosa vi trovi di straordinario?

– Quelle due navi sono montate da equipaggi troppo numerosi e mi hanno un’aria sospetta.

– Ed a me hanno fatto la stessa impressione, – disse Tremal-Naik. – Quei miriam che portano a poppa non li ho mai veduti né a bordo delle grab, né delle pariah.

– Le terremo d’occhio, – rispose Yanez. – Potreste però anche ingannarvi. Sono cariche?

– No, – disse Sandokan.

– Ammettendo anche che possano appartenere ai Thugs, nulla potrebbero tentare contro di noi, almeno finché siamo sotto le artiglierie del forte William.

Accontentiamoci di sorvegliarle e occupiamoci della nostra spedizione. Surama può camminare e condurci alla vecchia pagoda. È vero, fanciulla?

– Sí, sahib: io posso condurvi.

– Dovremo risalire il fiume per molte ore? – chiese Sandokan.

– La pagoda si trova a sette o a otto miglia dagli ultimi sobborghi della città nera.

– Sono già le sei; possiamo partire per sceglierci il posto prima che giungano i Thugs. Le due scialuppe sono pronte e i fucili nascosti sotto i banchi. Andiamo.

Porse a Surama un largo mantello di seta oscura fornito di cappuccio e salirono tutti in coperta.

Le due scialuppe erano già state calate e ventiquattro uomini, scelti fra i malesi e i dayachi, avevano occupato i banchi.

– Le vedi? – chiese Sandokan a Yanez, indicandogli le due grab che avevano gettato le ancore a pochi passi dal praho, una a babordo e l’altra a tribordo.

Il portoghese le guardò di sfuggita. Erano due solidi velieri, un po’ meno grossi della Marianna, colla prora a punta, tre alberi altissimi, la poppa assai elevata e che portavano grandi vele latine, che non erano state ancora calate sul ponte.

I marinai, tutti indiani, che in quel momento erano occupati ad allontanare le catene per meglio assicurare l’ancoraggio, erano infatti troppo numerosi per velieri cosí piccoli e cosí maneggiabili.

– Può darsi che abbiano qualche cosa di sospetto quelle navi, – disse Yanez. – Ma per ora non occupiamoci di loro, né preoccupiamoci.

Scesero nella scialuppa maggiore e presero rapidamente il largo, seguiti dall’altra che era guidata da Tremal-Naik e da Sambigliong.

Passarono rapidi come frecce attraverso ai navigli, poi dinanzi alla città bianca, quindi alla nera e continuarono la loro corsa verso il settentrione, seguendo i serpeggiamenti del sacro fiume.

Due ore dopo, Surama additava a Yanez ed a Sandokan una specie di piramide tronca che s’alzava sulla riva destra, in mezzo a un boschetto di cocchi il quale confinava con una jungla formata di bambú giganteschi.

Si trovavano in un luogo assolutamente deserto, non essendovi sulle due rive né capanne e nemmeno barche ancorate.

Solamente alcune dozzine di marabú passeggiavano gravemente fra i paletuvieri, borbottando e aprendo di quando in quando i loro becchi mostruosi in forma d’imbuto.

Dopo essersi ben assicurati che non vi fosse nessuno, i ventiquattro pirati ed i loro capi presero terra, levando le carabine che fino ad allora avevano tenute celate.

– Nascondete le scialuppe sotto i paletuvieri, – disse Sandokan, – e che quattro uomini rimangano qui di guardia. Avanti gli altri.

– Surama, – disse Yanez, – vuoi che ti faccia portare dai nostri uomini?

– Non ne ho bisogno, sahib bianco, – rispose la giovane.

– Quando deve aver luogo l’oni-gomon?

– Verso la mezzanotte.

– Abbiamo un’ora di vantaggio e ci basterà per tendere l’agguato al manti.

Si misero in cammino inoltrandosi sotto il boschetto di cocchi e venti minuti dopo giungevano su una spianata su cui sorgeva la vecchia pagoda, già quasi tutta caduta in rovina, ad eccezione della piramide centrale.

– Nascondiamoci lí dentro, – disse Sandokan, scorgendo una porta.

Stavano per varcarla, quando scorsero verso la jungla dei punti luminosi che pareva si dirigessero precisamente verso la pagoda.

– I Thugs! – esclamò Surama.

– Dentro, – comandò Sandokan, precipitandosi nell’interno della pagoda. – Un quarto d’ora di ritardo e giungevamo forse a cose finite.

Preparate le armi e tenetevi pronti a piombare sul manti.

Capitolo VIII. L’ONI-GOMON

Il barbaro costume di abbruciare sui cadaveri dei mariti le vedove indiane, se è interamente abolito dagl’indiani che hanno abbracciata la fede mussulmana, sussiste sempre nelle caste dei bramini, dei Thugs ed in quelle militari, non ostante gli sforzi prodigiosi tentati dagl’inglesi in quest’ultimo secolo per sradicarlo.

L’impero è cosí vasto, che la polizia anglo-indiana non riesce sempre a intervenire a tempo e non sempre viene a saperlo, giacché i parenti del defunto prendono le piú grandi precauzioni per ingannare le autorità.

Oggi quest’uso è abbastanza raro, specialmente nel Bengala, ma nelle provincie settentrionali e nell’alto corso del Gange si rileva ancora un numero considerevole di oni-gomon.

Dobbiamo anzi aggiungere che nei primi lustri del secolo scorso, quei sacrifici si erano cosí spaventosamente moltiplicati, non ostante le leggi rigorose emanate dal governo anglo-indiano, che in un solo anno, ossia nel 1817 furono consumati nel solo Bengala ben 700 di quei terribili olocausti.

Oggi per evitarli, o almeno per attenuarne il numero, il governo esige che la vedova che abbia il desiderio d’immolarsi, comparisca prima dinanzi ai magistrati e ne ottenga l’autorizzazione, la quale non viene concessa se non quando la sua decisione si mostra irremovibile.

La maggior parte però si rifiutano di lasciarsi abbruciare. Lasciarsi è la vera parola, perché i bramini le costringono colla violenza e quando quelle povere creature, alla vista delle fiamme sono colte dal terrore e tentano di fuggire, i parenti del morto le respingono nel fuoco a colpi di bastone o le legano al cadavere del marito.

Quante in tal modo ne furono arse nel secolo scorso, violentemente!… Ben poche furono quelle che vennero salvate all’ultimo istante dai paria, che trovandole belle le hanno strappate alle fiamme ancora in tempo per poi sposarle, non temendo quei disgraziati, disprezzati da tutte le caste, di disonorarsi prendendo una vedova.

La condizione delle donne indiane che hanno la sventura di perdere il marito è d’altronde tale, che buon numero di esse preferiscono la morte.

Se hanno dei figli sono meno stimate di tutte le altre donne; se non ne hanno, diventano in certo modo oggetto d’obbrobrio.

Il lutto di quelle sventurate che non hanno avuto il coraggio di bruciarsi sul cadavere del marito, dura fino alla loro morte.

Sono costrette a radersi il capo una volta al mese, non portare piú gioielli, non vestire abiti di tela bianca, non ingiallirsi né ungersi piú alcuna parte visibile del corpo; è perfino vietato a loro di tracciarsi sulla fronte i distintivi della casta a cui appartengono, di masticare il betel o di fumare, di assistere alle feste di famiglia. Che piú? Si sfuggono come appestate, perché gli indiani credono che l’incontro d’una vedova porti sfortuna.

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