Emilio Salgari - Le figlie dei faraoni

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«Se ne approfittassimo intanto per aprire il canale?» chiese Ounis.

«Manca molto a raggiungere le acque libere?» domandò Ata, volgendosi verso gli etiopi.

«In un’ora di lavoro si potrebbe attraversare la massa erbosa che ancora ci separa,» rispose uno degli etiopi.

«Che quindici uomini scendano. Gli altri rimangano a bordo per difenderli,» disse Mirinri. «Affondati fra le erbe non correranno molto pericolo.»

«Obbedite a questo giovane che è il comandante,» disse Ata ai battellieri.

Mentre l’ordine veniva eseguito, parecchi bevitori si erano gettati sul sett, coprendosi coi loro grandi scudi di cuoio e lanciando qualche freccia, per accertarsi della forza dei loro archi.

Giunti a duecento passi dal veliero si arrestarono, affondando le gambe nella massa erbosa, poi uno di loro gridò con voce poderosa:

«Che gli stranieri dell’Alto Nilo m’ascoltino, prima che il sangue arrossi le acque.»

«Parla,» disse Mirinri, che per precauzione si teneva lo scudo dinanzi al petto, temendo di ricevere qualche volata di dardi.

«V’intimiamo di renderci la maliarda, avendo ormai giurato di sacrificarla sull’altare di Bast, onde il suo sangue renda più abbondante e più generoso il vino che noi berremo l’anno venturo.»

«Quando un principe etiope prende sotto la propria protezione una persona, la difende e non la darebbe nemmeno ad un Faraone,» rispose Mirinri. «Tali sono i nostri usi.»

«Allora prendi il suo posto. Solo a questo patto vi lasceremo scendere il Nilo.»

«Tu non sei altro che un miserabile ubbriacone, a cui il vino ha offuscato il cervello. Né io, né la maliarda, né nessuno dei miei uomini servirà di sacrificio in onore di Bast,» rispose Mirinri. «Venite: vi aspettiamo e vi faremo provare la tempra delle armi etiopi e la robustezza dei nostri muscoli.»

Un clamore assordante coprì le sue ultime parole e l’orda dei bevitori si precipitò sul sett, agitando forsennatamente le armi.

Mirinri si volse e guardò la maliarda.

La giovane stava ritta contro l’albero maestro, fredda, impassibile, con una mano stretta attorno ad una corda. Solamente, i suoi occhi ardevano e scintillavano come quelli d’un animale notturno, fra le tenebre che avvolgevano il piccolo veliero, essendo la luna allora tramontata.

CAPITOLO SETTIMO. La maliarda

Gli adoratori di Bast, sempre più esaltati pel troppo vino bevuto e che non dovevano aver ancora digerito, come abbiamo detto, si erano gettati in massa sul sett muovendo risolutamente verso il veliero, che si trovava sempre stretto ed immobilizzato fra le erbe acquatiche, non ostante gli sforzi prodigiosi degli etiopi per aprirsi un passaggio.

Parecchi si erano muniti di rami resinosi, che bruciavano come torcie e che non dovevano certo servire a rischiarare la via, essendo le notti, in Egitto, d’una trasparenza meravigliosa, che permette di discernere un oggetto, anche piccolo, a distanze incredibili.

Erano appunto quelle torcie vegetali che avevano impressionato Ata, il quale non era già la prima volta che combatteva sulle rive del Nilo.

«Guardiamoci!» aveva esclamato. «Ci copriranno di freccie ardenti e corriamo il pericolo di morire abbruciati.»

Anche Ounis aveva aggrottata la fronte ed una profonda inquietudine si era diffusa sul suo viso.

«Che il Figlio del Sole debba finire qui, prima ancora d’aver potuto vedere l’orgogliosa Menfi?»

Mirinri, che si sentiva ardere nelle vene il sangue di prodi guerrieri, aveva prontamente organizzata la difesa. Sembrava che tutto d’un tratto fosse diventato un vecchio ed esperimentato condottiero.

«Coprite il ponte colle vele ed innaffiatele d’acqua!» aveva gridato.

Poi, volgendosi verso la maliarda, che conservava sempre la sua impassibilità, come se tutto quello che accadeva non la riguardasse, le disse:

«E tu, ritirati nella camera di poppa.»

La maliarda scosse il capo con un gesto di diniego e si limitò a fissare con intensità il giovane.

«Mi hai compreso?» chiese Mirinri, stupito.

«Sì,» rispose Nefer con voce dolcissima, ma ferma.

«Le freccie stanno per cadere e saranno munite di fiocchi infuocati.»

«Nefer non ha paura. Se tu, che mi hai salvato, sfidi la morte, perché dovrò cercare di evitarla io? E poi io, umile donna, salvata da te!… La luce che brilla nei tuoi occhi mi dice che il tuo corpo è divino.»

«Che cosa ne sai tu?»

«Nefer legge il futuro.»

Le grida furibonde degli ubriachi interruppero il loro dialogo. Quei frenetici accorrevano all’assalto del piccolo veliero, con slancio irrefrenabile, balzando come una legione di demoni sul sett.

Ata aveva mandato un grido d’allarme:

«Attenzione!»

Gli etiopi avevano tesi gli archi, saettando i più vicini e trapassandone parecchi colle loro lunghe freccie, le cui punte mobili rimanevano entro le carni.

Mirinri era a sua volta accorso dietro la murata, brandendo una mazza pesantissima, col capo dentellato, che solo il suo braccio vigoroso poteva reggere. Nella sinistra aveva lo scudo di pelle coperto di lamine di metallo dorato e così spesso da ripararlo benissimo dai dardi nemici.

La gagliarda risposta degli etiopi arrestò per un momento gli assalitori, ma una voce tuonante, che si alzò in mezzo all’orda, li decise a ritornare all’attacco:

«Il gran sacerdote lo vuole!»

Ata avea mandato un grido di rabbia.

«Lo avevo sospettato! Era un agguato!»

I bevitori avevano ripresa la corsa attraverso il sett, riparandosi dietro i loro grandi scudi. Delle freccie, la cui punta era impregnata d’una materia ardente, che bruciava, spandendo una luce azzurrognola, volavano attraverso le tenebre, conficcandosi nei fianchi del veliero e contro l’alberatura, minacciando di sviluppare un incendio a bordo.

Gli etiopi non si perdevano tuttavia d’animo, e continuavano a saettare gli assalitori, facendone cadere parecchi sulle erbe galleggianti. Quelli che lavoravano all’apertura del canale erano pure entrati in lotta, abbattendo a gran colpi d’ascia i primi arrivati.

La lotta stava per assumere proporzioni spaventose, quando la voce della maliarda echeggiò strillante fra le urla dei combattenti.

«Bacino di fuoco! Anime dei boschi! Toro delle tenebre! Spirito della notte! uditemi! Eh! Eh! Eh! Ih! Ih! Ih! Oh! Oh! Oh! Che Api, il dio del Nilo, spenga per sempre, nelle viscere delle vostre donne i figli vostri; che Hakaon, dio della fertilità, inaridisca per sempre le vostre campagne; che Ovadjit il simbolo del Nord e che Nekhbit il simbolo del Sud devastino l’alto e basso Egitto; che Khnum, il fabbricatore degli esseri umani, spenga la vostra razza infame se voi non vi arrestate! Non penetra nei vostri cuori la potenza divina che il giovane guerriero emana e che io sento? Egli ha lo spirito d’Osiride: la sua carne è sacra. Osate toccarlo! Nefer, la maliarda, ha letto nel suo cuore: uccidetelo e l’Egitto sarà finito!»

Mirinri, Ata e Ounis, stupiti da quello strano linguaggio, si erano voltati.

La maliarda stava ritta, rigida come una statua di bronzo, colle mani alzate, come se stesse per scagliare qualche terribile maledizione, gli occhi sfolgoranti d’una luce intensa ed i lineamenti alterati da una collera impossibile a descriversi.

Gli assalitori si erano arrestati. Pareva che un improvviso terrore si fosse impadronito di loro, poiché avevano lasciati cadere gli scudi, gli archi e le spade.

Ata si era slanciato verso la maliarda, colla spada alzata, gridando:

«Miserabile! Tu ci hai traditi annunciando la presenza d’un Faraone a bordo del mio veliero.»

«Salvo il Figlio del Sole,» rispose Nefer, con voce metallica.

Mirinri aveva fermato Ata, il quale stava già per colpire la fanciulla.

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