Emilio Salgari - Le figlie dei faraoni

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Ai piedi portava delle calzature a maglia e dei sandali, lusso permesso solamente ai ricchi, formati da pellicole di papiro sovrapposte a più strati, colla punta in forma di becco, come i nostri pattini da ghiaccio, fissati con un largo laccio guernito di piastrine d’oro e trattenuti da una correggia che passava fra il pollice e l’indice.

«Che cosa c’è dunque?» chiese, vedendo tutti gli etiopi sul sett.

«Brutte nuove,» rispose Ounis. «Si sospetta di noi.»

«Così presto?»

«Questa ne è la prova. Il canale non deve essere stato chiuso per capriccio. Per compiere un simile lavoro in poche ore devono essere giunte qui molte barche, montate da parecchie centinaia d’uomini.»

«Eppure tu hai preso per tanti anni le più accurate precauzioni. Ata è fidato?»

«Non dubito di lui.»

«Chi può aver tradito il segreto?»

«Quella gita compiuta dalla principessa non era che un pretesto. Ti si cercava. Mirinri, guardati da lei!»

«È figlia dell’usurpatore?»

«Sì.»

Un’emozione profonda si era dipinta sul viso del giovane Faraone. Stette parecchi istanti silenzioso, come raccolto in se stesso, poi disse con una certa esitazione:

«Eppure mi pare impossibile che quella donna che io ho strappato dalle fauci del coccodrillo, mettendo a repentaglio la mia vita, esiga la mia morte.»

«Odiala come la peggiore nemica.»

«Lei! Ma dunque le donne dei Faraoni posseggono delle malìe che nessuno può spiegare?»

«L’ami dunque?»

«Sì, immensamente l’amo,» rispose Mirinri con uno scatto d’improvviso entusiasmo. «Io non la posso dimenticare, perché sento ogni momento che io chiudo gli occhi, il fremito che io ho provato in quel giorno, quando la trassi dal Nilo, stillante acqua sacra.»

Ounis ebbe un sussulto ed i suoi lineamenti si contrassero quasi ferocemente.

«Strano destino del sangue,» disse.

Poi, volgendosi bruscamente verso Ata, che osservava sempre gli etiopi occupati a fendere, a gran colpi d’azza, l’ammasso d’erbe che impediva alla barca di proseguire la sua rotta, gli chiese:

«Dunque?

«Ne avremo fino a domani e forse di più,» rispose l’egiziano. «Hanno deviato delle masse enormi che hanno trattenute con un numero infinito di pali. Qui è stato compiuto un tradimento infame e anche…»

Un urlìo furioso, che s’alzava sulla riva sinistra del fiume gigante, accompagnato da scoppi di risa, gli aveva interrotta la frase.

«Qui, naviganti!» urlavano centinaia di voci rauche. «Non venite dunque a bere il dolce vino di palma? A terra o affonderemo la vostra nave e vi faremo bere invece l’acqua del fiume!»

Una turba di uomini e di donne era comparsa improvvisamente sulla riva del fiume e si sbracciava, come se fosse diventata improvvisamente pazza, saltellando al di sotto dei palmizi, che ergevano i loro snelli tronchi e stendevano le loro foglie piumate.

«Qui! Qui!» gridava senza posa. «È la festa di Bast e vuotiamo gli avanzi del vino dell’annata. Nessun forestiero può rifiutarsi! Scendete e rallegrate la nostra festa.»

In mezzo a quell’urlìo, si udivano a squillare delle cornette che avevano delle note assordanti, quegli strani istrumenti musicali chiamati dagli antichi egizi tan e che i greci affermavano sembrare il loro suono all’urlo di cani rabbiosi; le banit ossia le arpe facevano udire dei suoni dolcissimi, ai quali si confondevano le note un po’ stridule delle nebel, le chitarre usate in quell’epoca e che sembra fossero importate dai popoli asiatici.

Ata si era fatto oscuro in viso.

«Un agguato o la festa annuale dei bevitori?» si chiese con apprensione.

«Che cosa vuoi dire?» domandò Mirinri, che era stato profondamente colpito da quei suoni, che mai aveva udito a echeggiare fra le sabbie del deserto.

«Tu non conosci le nostre feste,» rispose l’egiziano. «Il Figlio del Sole non è vissuto nelle nostre terre.»

«Chi sono quegli uomini?»

«Persone che si divertono,» rispose Ounis, che gli stava presso. «Tutti gli anni si radunano sulle rive del sacro fiume parecchie centinaia o migliaia di individui per terminare il vino di palma raccolto nell’annata e nessuno deve ritornare alla propria casa se non è ubbriaco. È un costume del tuo futuro popolo.»

«E che cosa vogliono da noi?»

«T’invitano a prendere parte alla loro festa.»

«Io con loro?»

«Sono ebbri, Figlio del Sole, e tu non puoi sapere a quale pericolo ci esporremmo colla barca immobilizzata, a non obbedire al loro invito,» disse Ata.

«Non ci tenderanno un agguato?» chiese Ounis.

«Sono troppo allegri.»

«I tuoi uomini avranno molto da fare ancora?»

«Sì, Ounis. Il passaggio è stato chiuso su una larghezza ragguardevole e non potremo proseguire il viaggio prima di domani mattina.»

«Sicché dovremo accettare il loro invito?»

«Credo che sia cosa prudente non rifiutare. Sono ubriachi, quindi capaci di tutto. D’altronde vedi le loro scialuppe muovere verso le masse erbose. Evitiamo qualsiasi sospetto e scendiamo a terra come onesti naviganti del Nilo. I miei etiopi si terranno pronti, in caso di pericolo, a difendere il Figlio del Sole.»

CAPITOLO SESTO. La festa degli ubriachi

Fra le tante feste che gli antichi egiziani avevano, certamente una delle più originali era quella dei bevitori di vino di palma. Tutti gli anni, delle centinaia e centinaia di uomini si radunavano sotto le foreste di palmizi per celebrare la festa chiamata di Bast ed era obbligo assoluto che nessuno tornasse alle proprie case se prima non era consumata interamente la provvista di vino di palma raccolto durante l’annata. È probabile che gli antichi romani abbiano tratto da ciò i loro famosi Saturnali, poiché in quelle feste del vino, permesse dai Faraoni, non mancavano né suonatrici, né danzatrici, per esaltare maggiormente i bevitori e renderli addirittura folli.

Ed infatti sulla riva, che la luna illuminava in pieno, si scorgevano, confuse fra gli uomini, molte donne che indossavano dei costumi splendidi e che tenevano in mano degli istrumenti musicali. Anch’esse, che sembravano pure molto allegre, invitavano con alte grida i naviganti a prendere parte all’orgia e vuotare delle coppe in onore di Bast.

Ata, dopo aver fatto esplorare il banco erboso per accertarsi della sua resistenza, scese a sua volta, accompagnato da Mirinri, da Ounis e da otto etiopi che portavano alla cintura delle pesanti ascie e dei pugnali di rame dalla punta acutissima.

La traversata del sett la compirono senza difficoltà, essendo quelle masse trattenute dai pali piantati da coloro che avevano interesse a trattenere la barca e raggiunsero la sponda fra le grida gioconde dei bevitori.

Vi erano due o trecento persone fra uomini e danzatrici, che traballavano sulle malferme gambe.

Erano gli uomini per la maggior parte pescatori o battellieri, che indossavano dei semplici grembiali di pelle conciata, con qualche fascia variopinta gettata sulla testa o sulle spalle, però non mancavano fra loro dei giovanotti di buona condizione, che indossavano delle ricche kalasiris, con collari inamidati e che avevano parrucche sul capo con lunghe trecce pendenti sulle tempie e delle barbe finte.

Spiccavano invece per ricchezza e buon gusto dei costumi le suonatrici e le danzatrici, con splendide kalasiris variopinte e leggere come veli, con fazzoletti di squisita manifattura annodati intorno al capo, in modo però da lasciare in vista le loro capigliature intrecciate bizzarramente; con fascie legate attorno alle anche coi capi ricadenti fino a terra e coi loro monili di oro, le loro collane di perle ed i loro grossi pendenti di forma rotonda e smaltati a più tinte.

Alcune avevano i seni coperti da conche di rame con ghirigori in doratura, trattenuti da cordoncini che si diramavano all’ingiro come i raggi del sole ed altre, invece del fazzoletto triangolare, portavano sopra i capelli delle pittoresche acconciature, formate da lamine d’oro trattenute sul dinanzi da una testa di uccello di rapina d’egual metallo.

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