Emilio Salgari - Le tigri di Monpracem

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Trecento passi più oltre, stavano i cacciatori. Dinanzi a loro, a piedi, si avanzava l’ufficialetto di marina col fucile puntato verso un gruppo di alberi. Sandokan si gettò d’arcioni, gridando:

– La tigre è mia!

Pareva una seconda tigre; spiccava salti di sedici piedi e ruggiva come una fiera.

– Principe! – gridò Marianna, che era discesa da cavallo.

Sandokan non udiva nessuno in quel momento, e continuava ad avanzarsi correndo.

L’ufficiale di marina che lo precedeva di dieci passi, udendolo avvicinarsi, puntò rapidamente il fucile e fece fuoco sulla tigre che si teneva ai piedi di un grosso albero, colle pupille contratte, i potenti artigli aperti, pronta a slanciarsi. Il fumo non si era ancora dissipato che la si vide attraversare lo spazio con impeto irresistibile e rovesciare l’imprudente e maldestro ufficiale. Stava per riprendere lo slancio per gettarsi sui cacciatori, ma Sandokan era lì. Impugnato solidamente il kriss si precipitò contro la belva, e prima che questa, sorpresa da tanta audacia, pensasse a difendersi, la rovesciava al suolo, serrandole la gola con tale forza da soffocarle i ruggiti.

– Guardami! – disse. – Anch’io sono una Tigre.

Poi, rapido come il pensiero, immerse la lama serpeggiante del suo kriss nel cuore della fiera, la quale si distese come fulminata.

Un urrah fragoroso accolse quella prodezza. Il pirata, uscito illeso da quella lotta, gettò uno sguardo sprezzante sull’ufficialetto che stava rialzandosi, poi, volgendosi verso la giovane lady, rimasta muta pel terrore e per l’angoscia, con un gesto di cui sarebbe andato altero un re, le disse:

– Milady, la pelle della tigre è vostra.

IL TRADIMENTO

Il pranzo, offerto da lord James agli invitati, fu uno dei più splendidi e dei più allegri che fossero stati dati fino allora nella villa.

La cucina inglese rappresentata da enormi beefsteaks e da colossali puddings, e la cucina malese rappresentata da schidionate di tucani, da ostriche gigantesche dette di Singapore, da teneri bambù, il cui sapore rammentava gli asparagi d’Europa e da una montagna di frutta squisite, furono da tutti gustate e lodate.

Non occorre dire che il tutto fu innaffiato da gran numero di bottiglie di vino, di gin, di brandy e di whisky, le quali servirono a ripetuti brindisi in onore di Sandokan e della gentile, quanto intrepida «Perla di Labuan».

Al thè la conversazione si fece animatissima discorrendo di tigri, di cacce, di pirati, di navi dell’Inghilterra e della Malesia. Il solo ufficiale di marina si teneva silenzioso e pareva occupato unicamente a studiare Sandokan, poiché infatti non lo perdeva un solo istante di vista, né si lasciava sfuggire una delle sue parole o un solo dei suoi gesti.

Ad un tratto però indirizzandosi a Sandokan che stava parlando della pirateria, gli chiese bruscamente:

– Scusate, principe, è molto tempo che voi siete giunto a Labuan?

– Mi trovo qui da venti giorni, signore – rispose la Tigre.

– Ma per quale motivo non si è veduta la vostra nave a Vittoria?

– Perché i pirati mi rapirono i due prahos che qui mi conducevano.

– I pirati! Voi siete stato assalito dai pirati? Ma dove?

– Nei pressi delle Romades.

– Quando?

– Poche ore prima del mio arrivo su queste coste.

– V’ingannate di certo, principe, poiché appunto allora il nostro incrociatore navigava in quei paraggi e nessun colpo di cannone pervenne a noi.

– Forse il vento soffiava da levante – rispose Sandokan, che cominciava a tenersi in guardia, non sapendo dove volesse finire l’ufficiale.

– Ma come siete giunto qui?

– A nuoto.

– E non avete assistito ad un combattimento fra due legni corsari che si dice fossero guidati dalla Tigre della Malesia ed un incrociatore?

– No!

– È strano.

– Signore, mettereste in dubbio le mie parole? – chiese Sandokan, scattando in piedi.

– Dio me ne guardi, principe – rispose l’ufficiale, con leggera ironia.

– Oh! oh! – esclamò il lord, intervenendo. – Baronetto William, vi prego di non avviare dispute in casa mia.

– Scusate, milord, non ne avevo l’intenzione – rispose l’ufficialetto.

– Non se ne parli più adunque, assaggiate invece un altro bicchiere di questo delizioso whisky, poi leviamo la mensa che la notte è calata e le foreste dell’isola non sono sicure, quando fa oscuro.

I convitati fecero un’ultima volta onore alle bottiglie del generoso lord, poi tutti si alzarono e discesero nel parco, accompagnati da Sandokan e dalla lady.

– Signori – disse lord James. – Spero che voi mi verrete a trovare presto.

– Siate certo che non mancheremo – dissero in coro i cacciatori.

– E speriamo che non vi manchi l’occasione di essere più fortunato, baronetto William – disse, rivolgendosi verso l’ufficiale.

– Tirerò meglio – rispose questi, lasciando cadere su Sandokan uno sguardo corrucciato. – Permettetemi ora una parola, milord.

– Due, mio caro.

L’ufficialetto gli mormorò alcune parole all’orecchio, che nessuno potè udire.

– Sta bene – rispose il lord, dopo. – Ed ora buona notte amici e che Dio vi preservi dai cattivi incontri.

I cacciatori salirono in arcione e uscirono dal parco di galoppo. Sandokan, dopo aver salutato il lord che pareva fosse diventato tutto d’un tratto assai di cattivo umore, e stretta appassionatamente la mano alla giovane lady, si ritirò nella propria stanza.

Invece di coricarsi egli si mise a passeggiare in preda ad una viva agitazione. Una vaga inquietudine si rifletteva nel suo viso e le sue mani tormentavano l’impugnatura del kriss.

Egli pensava senza dubbio a quella specie di interrogatorio fattogli subire dall’ufficiale di marina e che poteva nascondere un tranello abilmente tesogli. Chi era quell’ufficiale? Quali motivi lo avevano spinto a interrogarlo in quel modo? L’aveva forse incontrato sul ponte del piroscafo in quella notte di sangue? Era stato riconosciuto o l’ufficiale aveva un semplice sospetto? Si tramava, forse, in quel momento, qualche cosa contro il pirata?

– Bah! – disse finalmente Sandokan, alzando le spalle. – Se si trama qualche tradimento io saprò sventarlo, poiché sento di essere ancora l’uomo che non ha mai avuto paura di questi inglesi. Orsù riposiamo, e domani vedremo che cosa si dovrà fare.

Si gettò sul letto senza spogliarsi, si mise accanto il kriss e s’addormentò tranquillamente, col dolce nome di Marianna sulle labbra.

Si svegliò verso mezzodì, quando già il sole entrava per le finestre rimaste aperte. Chiamò un servo e gli chiese dove fosse il lord, ma gli fu risposto che era salito a cavallo prima dell’alba, dirigendosi verso Vittoria. Quella nuova, che certo non si aspettava, lo stupì.

– Partito! – mormorò. – Partito, senza avermi detto nulla ieri sera. Per quale motivo? Che si trami proprio qualche tradimento contro di me? Se stasera egli tornasse non più amico, ma fiero nemico? Che cosa farò di quest’uomo che mi ha curato come un padre e che è zio della donna che io adoro? Bisogna che io riveda Marianna e che io sappia qualche cosa.

Discese nel parco colla speranza d’incontrarla, ma non vide nessuno. Senza volerlo si diresse verso l’albero atterrato, ove ella era solita a sedersi e si arrestò, mandando un profondo sospiro.

– Ah! Come eri bella o Marianna quella sera che io pensavo a fuggire – mormorò, passandosi una mano sull’ardente fronte. – Stolto, io cercavo di allontanarmi per sempre da te, adorabile creatura, mentre anche tu mi amavi!

«Strano destino! Chi avrebbe detto che un giorno io avrei amato una donna! E come io ora l’amo! Vi è del fuoco nelle mie vene, del fuoco nel mio cuore, del fuoco nel mio cervello e del fuoco perfino nelle mie ossa e che sempre cresce a misura che ingigantisce la passione. Sento che per quella donna io mi farei inglese, che per lei mi venderei schiavo, che abbandonerei per sempre la burrascosa vita di avventuriero, che maledirei i miei tigrotti e questo mare che io domino e che considero come sangue delle mie vene.»

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