Emilio Salgari - Le tigri di Monpracem
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Non aveva abbandonata la passione per le armi e gli esercizi violenti, e ben spesso, indomita amazzone, percorreva i grandi boschi, inseguendo perfino le tigri, o pari ad una najade si tuffava intrepidamente nelle azzurre onde del mar Malese; ma più sovente si trovava là ove la miseria o la sventura infieriva, recando soccorsi a tutti gli indigeni dei dintorni, a quegli indigeni che lord James odiava a morte, come discendenti di antichi pirati.
E così quella fanciulla, colla sua intrepidezza e la sua bontà e per la sua bellezza, si era meritata quel soprannome di «Perla di Labuan», soprannome volato così lontano e che aveva fatto battere il cuore della formidabile Tigre della Malesia. Ma sotto quei boschi, quasi lontana da ogni creatura civile, la bambina, diventata ragazza, non si era mai accorta di essere donna; ma quando ebbe veduto quel fiero pirata, senza sapere il perché, ella aveva provato uno strano turbamento. Cos’era? Ella lo ignorava, ma si vedeva sempre dinanzi agli occhi, e alla notte le appariva in sogno, quell’uomo dalla figura così fiera, che aveva la nobiltà di un sultano e che possedeva la galanteria d’un cavaliere europeo, quell’uomo dagli occhi scintillanti, dai lunghi capelli neri e quel viso su cui leggevasi a chiare parole un coraggio più che indomito e un’energia più unica che rara. Dopo d’averlo affascinato coi suoi occhi, colla sua voce, colla sua bellezza, era rimasta a sua volta affascinata e vinta.
Aveva dapprima cercato di reagire contro quel battito del cuore, che per lei era nuovo, come era nuovo per Sandokan, ma invano. Sentiva sempre che una forza irresistibile la spingeva a rivedere quell’uomo e che non ritrovava la calma di prima che presso di lui; si sentiva solamente felice quando si trovava al letto di lui e quando gli leniva gli acuti dolori della ferita col suo chiacchierìo, coi suoi sorrisi, colla sua impareggiabile voce e colla sua mandola. E bisognava vederlo in quei momenti, Sandokan, quando ella cantava le dolci canzoni del lontano paese natìo, accompagnandole coi delicati suoni del melodioso istrumento.
Allora non era più la Tigre della Malesia, non era più il sanguinario pirata. Muto, anelante, madido di sudore, rattenendo il respiro, per non turbare coll’alito quella voce argentina e melodiosa, ascoltava come un uomo che sogna, come se avesse voluto imprimersi nella mente quella lingua sconosciuta che lo inebriava, che gli soffocava le torture della ferita, e quando la voce, dopo aver vibrato un’ultima volta, moriva coll’ultima nota della mandola, lo si vedeva rimanere a lungo in quella posa, colle braccia tese come se volesse attirare a sé la fanciulla, collo sguardo fiammeggiante fisso in quello umido di lei, col cuore sospeso e gli orecchie tesi come se ascoltasse ancora.
In quei momenti egli non si ricordava più di essere la Tigre, dimenticava la sua Mompracem, i suoi prahos, i suoi tigrotti e il portoghese, che forse in quell’ora, credendolo per sempre spento, vendicava la sua morte chissà con quali sanguinose rappresaglie.
I giorni così volavano rapidi e la guarigione, potentemente aiutata dalla passione che gli divorava il sangue, procedeva rapida.
Nel pomeriggio del quindicesimo giorno il lord, entrato improvvisamente, trovò il pirata in piedi, pronto ad uscire.
– Oh! mio degno amico! – esclamò allegramente. – Sono ben contento di vedervi in piedi!
– Non mi era più possibile rimanere a letto, milord – rispose Sandokan. – D’altronde mi sento tanto forte da lottare con una tigre.
– Benissimo, allora vi metterò presto alla prova!
– In qual modo?
– Ho invitato alcuni buoni amici alla caccia d’una tigre che viene sovente a ronzare presso le mura del mio parco. Giacché vi vedo guarito, stasera andrò ad avvertirli che domani mattina cacciamo la belva.
– Sarò della partita, milord.
– Lo credo, ma ditemi ora, spero che rimarrete qualche tempo mio ospite.
– Milord, gravi affari mi chiamano altrove e bisogna che mi affretti a lasciarvi.
– Lasciarmi! Non pensatelo, per gli affari vi è sempre tempo e vi avverto che io non vi lascerò partire prima di qualche mese; orsù promettetemi di restare.
Sandokan lo guardò con due occhi che mandavano lampi. Per lui, rimanere in quella villa, presso la giovanetta che lo aveva affascinato, era la vita, era tutto. Non chiedeva di più per il momento.
Che importava a lui che i pirati di Mompracem lo piangessero come morto, quando poteva rivedere per molti giorni ancora quella divina fanciulla? Che importava a lui del suo fedele Yanez, che forse lo cercava ansiosamente sulle sponde dell’isola, giuocando la propria esistenza, quando Marianna cominciava ad amarlo? E che importava a lui se non udiva più il tuonare delle fumanti artiglierie, quando poteva ancora udire la voce deliziosa della donna amata, o provare le terribili emozioni delle battaglie, quando lei gli faceva provare delle emozioni più sublimi? E che importava infine a lui se correva il pericolo di venire scoperto, forse preso, forse ucciso, quando poteva ancora respirare la medesima aria che alimentava la sua Marianna, vivere in mezzo ai grandi boschi dove viveva lei?
Tutto avrebbe dimenticato per continuare ancora così per cento anni, la sua Mompracem, i suoi tigrotti, i suoi legni e perfino le sue sanguinose vendette.
– Sì, milord, io rimarrò finché vorrete – disse egli, con impeto. – Accetto l’ospitalità che voi cordialmente mi offrite e se mai un giorno, non dimenticate queste parole, milord, noi dovremmo incontrarci non più amici, ma fieri nemici, colle armi in pugno, saprò allora ricordarmi la riconoscenza che vi devo.
L’inglese lo guardò stupefatto.
– Perché mi parlate così? – chiese.
– Forse un giorno lo saprete – rispose Sandokan, con voce grave.
– Non voglio indagare per ora i vostri segreti – disse il lord, sorridendo. – Aspetterò quel giorno.
Trasse l’orologio e guardò.
– Bisogna che parta subito, se devo avvisare gli amici della caccia che intraprenderemo. Addio, mio caro principe – disse.
Stava per uscire, quando si fermò, dicendo:
– Se vorrete scendere nel parco, troverete mia nipote, che spero vi terrà buona compagnia.
– Grazie, milord.
Era quello che Sandokan desiderava; di potersi trovare, anche per pochi minuti, solo con la giovanetta, forse per svelare la gigantesca passione che divoravagli il cuore.
Appena si vide solo, si avvicinò rapidamente ad una finestra che guardava su di un immenso parco.
Là, all’ombra di una magnolia di Cina tempestata di fiori dall’acuto profumo, seduta sul tronco rovesciato di una arenga, stava la giovane lady. Era sola, in atteggiamento pensoso, colla mandola sulle ginocchia. A Sandokan parve una celeste visione. Tutto il sangue gli affluì al capo, e il cuore si mise a battergli con veemenza indescrivibile.
Egli rimase lì, cogli occhi ardentemente fissi sulla giovanetta, rattenendo perfino il respiro, come se avesse paura di turbarla.
Ad un tratto però diede indietro, mandando un grido soffocato, che parve un lontano ruggito. La faccia si alterò spaventosamente, prendendo una feroce espressione.
La Tigre della Malesia, fino allora affascinata, stregata, ora che si sentiva guarita, improvvisamente si risvegliava. Tornava l’uomo feroce, spietato, sanguinario, dal cuore inaccessibile ad ogni passione.
– Che cosa sto per fare io? – esclamò, con voce rauca, passandosi le mani sull’ardente fronte. – Ma che sia proprio vero che io amo quella fanciulla? È stato un sogno od una inesplicabile pazzia? Che io non sia più il pirata di Mompracem, per sentirmi attratto da una forza irresistibile verso quella figlia di una razza, alla quale io ho giurato odio eterno?
«Io amare!… Io che non ho provato altro che impeti di odio e che porto il nome di una belva sanguinaria!… Dimenticherei io forse la mia selvaggia Mompracem, i miei fedeli tigrotti, il mio Yanez, che mi aspettano chissà mai in quali ansie? Dimentico io forse che i compatrioti di quella fanciulla, non aspettano che il momento propizio per distruggere la mia potenza?
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