Vittorio Bersezio - La plebe, parte III

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S'interruppe e volse uno di quegli sguardi che balenavano raramente nelle sue pupille – uno sguardo vivo e scrutatore – sulla faccia del marchese.

– Anzi, soggiunse, Ella, s'io son bene informato, ha presso di sè codesto scritto.

– Sì Maestà.

– E può giudicare adunque meglio di qualunque altro delle tendenze e delle segrete volontà di codestoro.

– Quello scritto è l'opera giovanile di un'intelligenza precoce che ha molte idee e poca esperienza. Gli errori vi sono molti; anzi è tutto un errore, poggiando ogni sua considerazione ed opinione sopra una falsa base primitiva; ma in quelle pagine, a dir vero, non si rivela mai l'empia foga di chi non anela ad altro che mandare a soqquadro la società. Lo scrittore cerca e propugna una modificazione degli ordini esistenti – una modificazione assurda, già s'intende – ma non vuole violenza di rivoluzione… Io pensava, Sire, che queste giovani intelligenze irrequiete, mosse ordinariamente da una ambizione che non è neppur condannevole, si possono agevolmente acquistare alla buona causa mercè qualche benignità e favore; e primo favore oggidì per codestoro è un generoso perdono.

Carlo Alberto guardava innanzi a sè coll'occhio appannato, e pareva immerso in una profonda meditazione.

– I momenti sono molto gravi: diss'egli poi lentamente, con parola quasi mozzicata e voce contenuta; i tempi sembrano preparare chi sa che difficoltà e pericoli. Nelle ombre, sotto lo strato apparentemente tranquillo della società, si agitano passioni parecchie, diverse, ed alcune feroci. L'empia opera contro l'altare ed il trono si va propagando sordamente coll'arte delle congiure e coll'audacia delle ispirazioni diaboliche. Tutte le relazioni che ricevo da ogni parte si accordano a certificare il pericolo. Il nuovo Pontefice solo colla sua clemenza non par egli aver data ansa ai più audaci propositi dei liberali italiani? Di Francia giungono spaventose notizie di cospirazioni, di tendenze sovvertitrici peggiori di quelle del tempo del terrore, cui troppo si teme che la monarchia parlamentare sia debole per contenere e reprimere. In tali epoche di crisi conviene egli esser clementi?..

S'interruppe e tacque un istante, immobile nel suo atteggio, come impietrito, senza volgere pure uno sguardo al suo interlocutore.

– Una modificazione degli ordini esistenti? Riprese egli poi, quasi parlando a se stesso. Quella benedetta gioventù non dubita di nulla. Quale modificazione? Non sono dunque mai soddisfatti questi indiscreti di novatori! Dacchè Dio mi chiamò al trono fu un continuo introdurre di tutte le migliorie possibili in ogni ramo della pubblica azienda. Ma essi vogliono l'impossibile!.. Marchese, Ella mi disse che in quello scritto c'era dell'ingegno e c'erano molte idee.

– Sì, Maestà.

– Non è dunque un tempo sciupato il gettarvi sopra gli occhi?.. Voglio vederlo.

Baldissero s'inchinò in segno di ubbidiente assentimento.

– Esser clemente! continuò il Re con una specie di sospiro: è pure codesto il mio più caro desiderio… Avrei voluto esserlo sempre.

Una nube sembrò passare sulla sua fronte; e la luce del suo sguardo parve offuscarsi maggiormente. Forse pensava alle fatali fucilazioni d'Alessandria.

– Ma un re, soggiunse con alquanto più di vivacità, può essere clemente per tutte le temerità che minacciano la sua persona soltanto, ma quando è il trono che si vuole assalire, quando è la dignità della corona che è offesa, quando in noi è ferita quella sacra istituzione che rappresentiamo: la monarchia; allora è dovere – ah! crudele dovere – in un re l'essere inesorabile.

– Sire: disse il marchese, poichè il Re si fu taciuto; come ho già avuto l'onore di accennare, io continuo a credere che in questo caso…

Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno colla mano che tolse da sostenere il mento e che con lenta mossa ripose, richiusa a pugno, sul piano della tavola.

– Io non parlo di questo caso. Parlo in generale.

Vi fu di nuovo una pausa di pochi minuti secondi.

– Sa Ella, marchese, ripigliò a dire il Re schiudendo le pallide labbra ad un pallido sorriso; sa Ella che poc'anzi il conte Della *** propugnava qui la causa precisamente contraria a quella da Lei sostenuta? Egli vuole la severità.

– A V. M. l'apprezzare quale delle due cause sia più degna di Lei.

Carlo Alberto estinse ad un tratto quel lieve sorriso che gli aleggiava sulle labbra, chinò il capo e si tacque.

– Il conte Della ***, continuò il marchese, ha egli prove maggiori di quelle ch'io conosca della colpevolezza pericolosa di que' giovani?

– Ha delle presunzioni… che hanno un certo valore… Una prova però sarebbe quella che sotto nome finto e sotto le spoglie d'un artista di canto avesse strettissime attinenze con quei giovani un tal emigrato romano, ribelle alla Santa Sede, audacissimo rivoluzionario.

– Ma la cosa mi pare quasi affatto esclusa. Il conte San-Luca ha affermato a suo zio Barranchi che questo tale è precisamente quel che si spaccia e non altro.

– Venne ad affermarlo anche il duca di Lucca.

Le labbra del Re tornarono a stirarsi in quel cotale fugace e leggiero sorriso.

– Ma egli è una testa così sventata!

Quel sorriso scomparve, come quell'altra volta, di botto.

– Fra quei giovani, soggiunse con una serietà quasi cupa, ve ne son due che commisero reati precisi e non lievi. L'uno ier sera al ballo dell'Accademia, noi presenti, oltraggiò un impiegato di Corte, il figliuolo d'un alto dignitario dello Stato; l'altro, questa mattina, si ribellò agli agenti della forza pubblica.

– Sire: disse con fermo accento il marchese: il primo fu aspramente provocato, e se in lui si vuol proseguire la colpa, conviene che anche il suo provocatore sia soggetto al medesimo trattamento.

– Ma questo a cui Ella allude, è suo figlio, marchese.

– Sì, Maestà.

– Va bene: disse allora il Re ponendo lentamente la sua mano sulla destra del marchese. Sarà perdonato a tuttidue… Ma e quell'altro che fece resistenza alla forza pubblica?

– Quegli agenti non erano in montura; la colpa di quel giovane sconsigliato mi sembra abbia da giudicarsi perciò molto minore.

Carlo Alberto si alzò e il marchese fu sollecito a levarsi ancor esso.

– Il conte Della *** andrà in collera: disse il Re facendo ancora una volta quel suo sorriso; ma io do ragione alla causa della clemenza propugnata così bene.

– La causa della clemenza, disse il marchese, non ha bisogno d'essere propugnata da nessuno innanzi alla Maestà Vostra. Le parla abbastanza l'anima sua.

Carlo Alberto non rispose.

– Ah! diss'egli poi, una condizione marchese.

– Comandi, Maestà.

– Quel giovane avvocato ebbe una contesa con persona che molto presso a Lei appartiene. Desidero (e pesò su questa parola) che siffatta contesa si ritenga come assolutamente terminata e non abbia conseguenza di sorta.

– Sire; ogni menomo suo desiderio è un ordine a cui i Baldissero saranno sempre lieti di obbedire.

– Sta bene: disse il Re con inesprimibile grazia d'accento e di guardatura.

Poi chinò lievemente la testa in una specie di saluto.

– Attendo quel manoscritto, marchese: soggiunse come per ultime parole di commiato.

Ma Baldissero pur facendo un profondo inchino, non accennò partire.

– Supplico ancora un istante d'udienza da V. M. È un'altra grazia che ho da domandarle.

– Quale? Interrogò Carlo Alberto atteggiandosi a quella mossa naturalmente dignitosa, che dava tanta imponenza alla sua persona.

– Il cavaliere d'Azeglio chiede di essere ricevuto da V. M.

– Ah! Massimo? domandò il Re con qualche maggiore interesse di quello che mostrasse ordinariamente.

– Sì Maestà.

Carlo Alberto, come sempre, indugiò alquanto a dare la risposta. Il suo sguardo incerto pareva andar vagando traverso i cristalli tersissimi della finestra sulla sottoposta Piazza Reale, in cui erano soltanto i lavoratori che spazzavano la neve, e più in là nella vasta Piazza Castello dove rarissimi e frettolosi i passeggieri sotto al lento fioccare della neve che continuava.

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