Romualdo Bonfadini - Mezzo secolo di patriotismo

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A questa ha presieduto per più di tre anni Francesco Melzi, rialzando veramente in ogni pubblica azienda quel concetto alto e morale che s'era perduto durante gli ultimi rivolgimenti, e mettendo le basi a quasi tutte le istituzioni che i nove anni successivi del Regno italico avrebbero potuto svolgere e perfezionare.

Il governo di Melzi fu veramente un complesso di uomini, rispettabili nella vita privata, capaci nella vita pubblica, pieni di zelo e di attività salutare. Bonaparte gli aveva dato fin da Lione due soli collaboratori, lo Spanocchi, Gran Giudice, magistrato di severa dottrina e d'incorruttibile probità, e Diego Guicciardi, Segretario di Stato, amministratore sagace e ricco di espedienti, che delle persone e delle cose lombarde aveva conoscenza profonda e precisa.

Intorno a questo nucleo raccolse presto il Melzi gli altri elementi di cui aveva bisogno; e si ajutò di Carlo Verri e del Villa per gli affari interni, di Pietro Moscati per l'istruzione pubblica, di Prina e di Veneri per le finanze, di Bovara e di Giudici per gli affari del culto; all'importante dipartimento delle pubbliche costruzioni venne allora e durò poi lunghi anni quel conte Paradisi, sotto la cui amministrazione furono compiute così gigantesche opere stradali ed idrauliche, ed alla cui scuola si educarono ai futuri prodigi tanti giovani illustri, fra cui la nostra generazione non può dimenticare Elia Lombardini e Pietro Paleocapa.

Soprattutto al concetto morale badava il Melzi, e faceva convergere a rialzarlo tutti i suoi discorsi e l'opera sua. “L'uomo libero„ scriveva al parroco di Magenta “non è che l'uomo probo.„ E pubblicava, dover sopravvivere a tutte le divisioni passate quella sola che ponesse un muro di bronzo fra gli uomini onesti e quelli che non lo sono.

Gli erano dunque fieramente avversi tutti quegli elementi equivoci, che nel primo triennio e dopo la battaglia di Marengo avevano fatto sulle finanze pubbliche così turpi speculazioni. Il Sommariva, congedato con severa frase dal Melzi, ordiva intrighi a Parigi per isbalzarlo. Aveva tentato perfino di mettere contro di lui l'influenza ancora efficace di Giuseppina, facendole offrire dal suo complice Formiggini una collana del valore d'un milione. Giuseppina, onestissima malgrado la sua vanità, respinse il dono, che sotto altre apparenze poteva ricordare il famoso episodio fra Maria Antonietta e il cardinale di Rohan. Ebbe minori scrupoli il Talleyrand, che ritenne, senza chiederne la provenienza, un orologio a brillanti del valore di ottantamila lire.

Questo intrigo poteva essere tanto più pericoloso in quanto s'ajutava di tutte le ostilità, segrete o palesi, a cui la politica schiettamente italiana del Melzi dava pretesto. Giuseppe Bonaparte, che attribuiva all'opposizione sua di non essere Presidente della Repubblica Italiana, ostentava grandi accoglienze al Sommariva, che aveva sposato un'antica amante di Gian Giacomo Rousseau e che teneva in sua casa corte bandita per equivoci commensali, orpellando colle nuove ricchezze l'antica volgarità. Fra i generali, avvezzi all'impunità degli abusi, l'irremovibile severità del Vice-presidente suscitava fieri lamenti. Se n'era fatto il più romoroso banditore Giuseppe Lechi, uomo altrettanto immorale quanto valoroso, non molto dissimile per torbida indole dal fratello Galeano, tiranno di Bormio. Il generale Marmont non era schivo dal prestar mano a queste corruttele, che venivano ad allacciarsi intorno al comandante supremo dell'esercito francese a Milano, Gioachino Murat; cuore onesto, ma debole, che dal suo grado militare e dalla sua stretta parentela col Primo Console traeva un certo disdegno d'essere in qualunque paese il secondo, e a cui non era difficile persuadere che gli spettasse esser primo.

Un pettegolezzo letterario, a cui questa coalizione d'interessi aveva saputo dare le proporzioni d'una congiura, complicava la situazione e accresceva gl'imbarazzi del Vice-presidente. Da Parigi venivano ordini fulminanti, richieste di processi contro Cicognara, contro Magenta, contro Teuliè, per alcune poesie d'un capitano Ceroni, che affettava ostilità giacobine contro il governo del Primo Console. Il quale s'avviava già, per insensibile pendio, su quello sdrucciolo di despotismo violento, in fondo al quale doveva pochi anni dopo trovare la fine della sua grandezza. Scriveva al Melzi, ordinandogli di sfrattare dallo Stato una dama milanese, la signora Fossati, perchè teneva circolo serale di elementi non favorevoli al regime francese. E per queste minutaglie politiche si accalorava tanto da scrivere: “la faiblesse du Gouvernement à Milan passe tout ce qu'il est possible de concevoir.„

Melzi resistette a queste molteplici bufere con severa e tranquilla dignità. “Le général Murat„ scriveva al Primo Console “a couvert de son nom cette trame odieuse„, e se ne appellava alla stessa sorella di Bonaparte, Carolina Murat, donna di maggior senno e di maggiore energia del marito.

Degli intriganti parigini scriveva col più grande disdegno e si meravigliava che presso le alte influenze del Governo avesse “le plus grand jeu la faction de l'ancien gouvernement qui est celle des voleurs.„

Circa le violenze poi che Bonaparte imponeva o consigliava contro avversarj politici, rispondeva: “je crois fermement qu'il y aurait de la folie à combattre les folies, les erreurs, les passions des hommes par la force, car la force leur donne un caractère extrêmement plus dangereux par la réaction qu'elle provoque. Je crois également qu'il est juste et nécessaire de punir les actes ou faits qui portent un caractère criminel. Toute ma conduite a été réglée sur cette distinction.„

Non vi pare di veder qui riassunta con linguaggio preciso e liberale, fin dal 1802, quella famosa teoria del prevenire e del reprimere, che alcune ingenuità dottrinarie considerano come un trovato di tempi così recenti?

Il Melzi chiudeva finalmente le sue corrispondenze, respingendo alteramente qualunque sospetto intorno alla sua lealtà, ed offrendo, come un primo ministro odierno, le sue dimissioni. “Comme il serait aussi injuste qu'absurde d'accuser ma loyauté, ainsi il serait au-dessous de moi de descendre à la justifier… J'avais pu sacrifier mon existence et mon repos au bonheur de ma patrie; mais je n'ai ni le courage ni l'envie de sacrifier mon bonheur à de viles intrigues.„

Bonaparte, reso ai sentimenti nobili e giusti da questa fiera dignità dell'amico suo, gli diede intera soddisfazione sopra ogni argomento. Cacciò da Parigi il Sommariva e i complici suoi, scrisse a Murat, biasimando la sua ostilità contro Melzi e dicendogli: “vivez bien avec lui.„ Al Cicognara, al Magenta, al Teuliè restituì, dopo poco tempo, libertà ed onori. Non accettò naturalmente le dimissioni offertegli, dicendogli anzi: “il est impossible qu'avec la confiance que je vous accorde, vous éprouviez aucune tracasserie.„ E, avendogli anche più tardi, sotto un altro accesso di stanchezza e di gotta, ridomandate il Melzi le sue dimissioni, Bonaparte gli rispondeva con una delle sue frasi sovrane: “vous êtes engagé dans la lice; il faut désormais que vous mouriez au milieu des hommes et des embarras du gouvernement des nations.„

Di questa tempra alta e veramente liberale del Melzi si potrebbe trovare la traccia in ognuna delle sue lettere, in ognuna delle sue disposizioni di governo. Era un ingegno equilibrato e coerente, che non aveva nessun pregiudizio di tempi e in parecchie cose preludeva a progressi futuri.

Quando riordinò l'Università di Bologna, nominò alla cattedra di lingua e letteratura greca una colta signora, Clotilde Tambroni. Costituì vigorosamente il servizio pubblico dell'innesto del vajuolo, disciplina ancora così discussa e così timidamente accettata, che Lorenzo d'Orlando scriveva qualche anno prima al conte Giberto Borromeo: “Mi rallegro con V. E. dell'esito felice d'una operazione tanto pericolosa come è l'innesto del vajuolo.„

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