Romualdo Bonfadini - Mezzo secolo di patriotismo
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Auspicj femminili lo trassero dalla vita brillante e spensierata dei circoli cittadini, per avviarlo a più vasti orizzonti. Primeggiava allora fra le gentildonne milanesi la marchesa Paola Castiglioni, colta e gentile Egeria di ogni Numa dell'epoca, la cui riputazione di eleganza, di bellezza e di spirito, consacrata nei serali convegni, traversò due generazioni per giungere ancora intera e vivace fino a quella che immediatamente ci ha preceduti.
Francesco Melzi, che allora chiamavano il contino , non era fra gli amici della marchesa il più trascurato. Anzi fu lui ch'essa volle compagno in un viaggio che intraprese in Francia; ed essa gli dischiuse l'ingresso in quelle celebrate riunioni parigine, dove, sotto la gonfia dottrina degli enciclopedisti, romoreggiavano i nuovi e minacciosi ardimenti degli uomini del terzo Stato. Fra quel meraviglioso turbinío di stranieri non si smarrì l'ingegno del Melzi, non ancora trentenne. Vi conobbe il D'Alembert, il Diderot, l'Helvetius, il Marmontel, il barone di Holbach, Vittorio Alfieri. Stette con loro come uomo a cui fosse famigliare qualunque forma di attività intellettuale. E non parve piccino fra quei giganti; tanto che madama di Stael, nelle sue Considerazioni sulla Rivoluzione Francese , ebbe a scrivere di lui: “non esserci stato mai uomo più distinto, neppure in Francia, pel sapore della conversazione, e nessuno averlo mai superato nell'arte di conoscere ed apprezzare tutti quelli che sostenevano una parte sulla scena politica.„
L'indole tutta italiana del Melzi non si sformò al contatto dei ribollimenti francesi. Chè anzi grave materia di esperienza e di studio trasse egli dallo spettacolo vivo di quella nazione, fra cui si elaborava tanta mole di novità. E pur tenendo l'animo aperto alla seduzione per ciò che v'era in quei concetti di generoso e di grande, l'acuto senno ne misurava il pericolo e intravedeva già, dietro il fascino delle parole, la futura intemperanza delle cose.
Innamoratosi dei viaggi e del largo osservare, dopo la Francia percorse la Spagna, il Portogallo, sopratutto l'Inghilterra, studiando ed annotando costumi, istituzioni, uomini, arti, paesi. Tornò, come cinquant'anni dopo il conte di Cavour, ammiratore della costituzione inglese, e convinto non essere possibile ad una nazione acquistare ordini e forze di libertà senza il beneficio principalissimo dell'indipendenza, cui egli giudicava fin d'allora doversi indirizzare il desiderio e lo sforzo di quanti amavano possedere, come le altre nazioni, una patria.
Così, nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente idoneo a cose di Stato, Francesco Melzi aspettava gli eventi.
Quando apparvero, soverchiando d'un tratto ogni argine di dottrina e di ragione, non si sgomentò. Resistette alla fiumana demagogica come doveva resistere più tardi al torrente del cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perchè non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono, nel loro stile barocco “di mettere il capo nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel centro degli affari 4 4 Termometro politico , anno 1796.
.„ Non era vero. Nessuno più del Melzi era schivo di chiedere ed assumere importanza politica. Più tardi fu anzi questo un difetto che il paese poteva a buon diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir male degli uomini virtuosi era pei viziosi il modo più sicuro e più spiccio di salire in grazia alle turbe e far loro dimenticare le proprie magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva; era una prova evidente del torto di quest'ultimo e della ragione dei primi. Così fu imprigionato, sbandito, richiamato.
Non era però il Melzi tal uomo che dello sfregio a sè fatto tenesse broncio al paese. Onde, non appena la prevalenza degli uomini onesti cominciò a risorgere e seppe essere richiesti i suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli; e, come addetto ai Comitati di governo, come inviato diplomatico a Rastadt, come consigliere di Bonaparte a Mombello, come inviato a Parigi, come promotore e ordinatore della Consulta di Lione, sollecito in ogni occasione degli interessi e della dignità del paese, ben presto riebbe quella fiducia e quella stima che i suoi concittadini non gli ritolsero poi per tutta la vita. Tanto è vero che popolarità durevole ed unicamente apprezzabile non si acquista col blandire ogni traviamento di moltitudini, per istrapparne un facile applauso, ma coll'uniformare sempre la propria condotta ai dettami di quella onesta coscienza, la quale allora solo è fallace quando s'impaurisce o si fiacca per biasimi non meritati.
Tali erano i precedenti dell'uomo che il 7 febbraio 1802 entrava in Milano, per assumere, con istituzioni nuove, le redini di uno Stato, in cui tutto era sconvolto e tutto era da mutare e da rinnovare. Le accoglienze, com'era da aspettarsi, furono assai festose e sincere. Da un pezzo la Repubblica s'agitava nel vuoto; indispettita della larva di governo cattivo che possedeva; ignara se ne avrebbe avuto uno migliore; incerta fino agli ultimi giorni se dalla Consulta di Lione le sarebbero giunte fortune o delusioni.
“Quel contino se la caverà con onore„ aveva scritto Vittorio Alfieri, appena udita la nomina di Melzi a Vice-presidente. Ed era, più che il pensiero, la speranza di tutti; essendo tutti ansiosi di uscire dal lungo provvisorio e dalla lunga anarchia. Era inoltre confortato il sentimento pubblico dall'idea che questa volta l'omaggio suo non si volgeva ad uno spagnuolo, nè ad un francese, nè ad un tedesco, nè ad un russo. Erano dei secoli che un italiano non appariva più come capo, come guida politica di una così grossa e bella compagine di popolazioni italiane! Onde l'istinto nazionale si sentiva rialzato nella sua dignità e si aprivano gli animi a speranze maggiori di maggiori compagini.
L'arte e la poesia celebravano a gara l'auspicato rinnovamento.
La Costituzione di Lione, firmata da Bonaparte, da Melzi, da Marescalchi e da Guicciardi 5 5 Ha la data del 26 gennajo 1802, anno I.º
, si deponeva nell'Archivio pubblico, dove tuttora si trova. Andrea Appiani aveva disegnato una medaglia, il Manfredini ne incideva un'altra, Ugo Foscolo pubblicava la sua veemente Orazione a Bonaparte , Vincenzo Monti cantava le lodi del nuovo magistrato e lo chiamava
il mio Melzi, a cui rivola
Della patria il desío.
E il Melzi, serio e severo, perchè preoccupato della grave responsabilità, entrava da Porta Vercellina, in una carrozza preceduta e seguita da brillante accompagnamento di magistrati, di militari, di popolo. Il generale Pino era nella carrozza con lui; il generale Murat era corso ad incontrarlo a capo dello stato maggiore; nell'ultimo posto, ed obliato da tutti, chiudeva umilmente il corteggio – rappresentanza viva delle ironie della sorte – quel generale Despinoy, che sei anni prima aveva trattato i milanesi con tanta impertinenza e che aveva fatto arrestare, con brutalità soldatesca, Francesco Melzi.
Qui comincia il periodo dell'attività politica e della responsabilità per l'uomo insigne che s'era fino allora mantenuto nei più facili confini del consiglio e della censura. E non è piccola lode sua, non è prova leggiera delle sue alte qualità di Stato il poter dire che Melzi uscì con intatta, anzi con cresciuta riputazione, da questo periodo, che è sempre così pericoloso e spesso così fatale per le ambizioni politiche.
Non ci è dato poter qui giustificare questa asserzione. Per essere fedeli alle necessità ed alle proporzioni del nostro studio, dobbiamo respingere da tutte le parti argomenti e fatti che ci si affollano innanzi alla mente; dobbiamo chiudere gli occhi por non vedere il periodo, per dimenticare la moltiplicità degli ostacoli vinti, delle riforme cominciate, delle leggi votate, dei lavori compiuti; dobbiamo resistere alla tentazione di uscire dall'atmosfera dell'uomo per entrare in quella delle cose. Ed è qui soprattutto che sentiamo l'insufficienza del metodo che ci siamo imposti: è quì che dobbiamo chiedere scusa ai lettori se la parola sarà impotente a condensare in un capitolo la materia di un libro e se a questa irta contraddizione fra lo spazio e l'intento ciascuno di essi crederà sacrificate quelle speciali rimembranze e quelle glorie speciali, – militari, legislative, edilizie, – onde s'è composta fra noi la ricca e simpatica tradizione dell'amministrazione italiana.
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