Romualdo Bonfadini - Mezzo secolo di patriotismo
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Il Primo Console era atteso già da più giorni. La popolazione bivaccava nelle campagne per timore di perdere l'ora dell'arrivo; la cavalleria lionese caracollava da quarantotto ore sulla strada maestra; la città splendidamente illuminata; gli animi ebbri. Quando la carrozza comparve, un lungo urlo: viva Bonaparte lo accompagnò fino al palazzo municipale. Colà scese, accompagnato da Giuseppina e dal giovinetto, non ancor principe, Eugenio. Ricevette il dì dopo i magistrati della città, le autorità civili e militari dei dipartimenti, lo stato maggiore dell'esercito d'Egitto, i membri della Consulta, presentatigli dal Marescalchi. A questi ultimi parlava in lingua italiana, seduzione per italiani grandissima. La sera fu in teatro, ove rappresentossi la Merope . Poi, la notte appresso, ad un ballo, a cui Giuseppina e le signore del suo seguito comparvero abbigliate di sole stoffe lionesi.
In pochi giorni, col suo meraviglioso istinto d'affari, e sugli schiarimenti che otteneva dal Marescalchi, dall'Aldini, dal Melzi, dal Talleyrand, fu interamente edotto delle cose trattate e conchiuse, delle difficoltà che restavano ad appianare. V'era stata lunga e sorda lotta fra le idee che voleva applicare all'Italia il Talleyrand e quelle da cui non dipartivasi Francesco Melzi. Prevalsero le ultime che ottennero l'aperto suffragio del Primo Console. Il Talleyrand voleva Stato piccolo, costituzioni vecchie, principe fiacco; Melzi insisteva per istituzioni nuove, per ampio Stato governato da principe illustre. Il ministro cortigiano insinuava che Giuseppe Bonaparte sarebbe stato un egregio presidente della nuova Repubblica, e lo schietto cittadino rimbeccava con fine spirito: “l'existence des archiducs a toujours suivi, jamais précédé celle des rois dans les familles souveraines.„ Egli voleva il Primo Console a capo del suo paese, perchè in lui solo aveva trovato, fra la turba degli statisti contemporanei, concetti politici affini ai suoi e l'autorità necessaria per farli prevalere. Non voleva uno Stato satellite che girasse intorno all'orbita del pianeta; poichè un uomo solo era grande e a tutti pareva necessario, voleva che quello, e non altri, assumesse, dopo la responsabilità del creare, quella del dirigere e del mantenere.
Sicchè volse tutta l'influenza sua e quella de' suoi amici a far sì che la Consulta acclamasse il Primo Console a Presidente; e la Consulta, che già aveva designato nel Melzi il proprio candidato 3 3 Anzi il Coppi ( Annali d'Italia ) afferma che la Consulta in una seduta avesse già nominato il Melzi Presidente e l'Aldini Vice-Presidente.
, misurando da quell'alto disinteresse la forza della sua convinzione, si piegò unanime a quel desiderio e incaricò un Comitato speciale di esprimere a Bonaparte la preghiera dei rappresentanti italiani.
Fu nella solenne adunanza del 26 gennajo che lo scioglimento politico si annunciò.
La Consulta era completa. Il Primo Console v'intervenne come a seduta reale, accolto da grandi applausi, e andò a sedersi nella parte più elevata della sala, accompagnato dalla sua famiglia, dai ministri Talleyrand e Chaptal, da un gran numero di generali, da venti prefetti, da quattro consiglieri di Stato. Quando l'acclamato Presidente si alzò per parlare, nell'ampia sala non s'udiva un respiro. Si afferravano le parole, s'indagavano gl'intenti. Bonaparte parlò in lingua italiana, con pronuncia netta e vibrata. Il suo discorso, abilmente conciso e improntato di quella grandiosa semplicità che distingueva il suo dir pubblico, toccava delicatamente molte corde e ne trattava altre con aspra franchezza. Si vedeva ch'egli s'era ricordato di parlare ad Italiani, ma di parlare in mezzo a Francesi.
Sulla questione capitale della Presidenza disse senza ambagi: “non ho trovato fra voi nessuno che avesse ancora abbastanza diritto sulla pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore ad ogni spirito di località e che avesse resi tanto grandi servigi alla patria, da potergli affidare la carica di Presidente… mi sono quindi determinato ad aderire al vostro voto, e, finchè le stesse circostanze lo vorranno, io m'incaricherò del pensiero dei vostri affari.„
Sul programma di governo, soggiungeva poi con sintesi sagace, e profonda: “voi non avete che leggi particolari ed avete bisogno di leggi generali; il vostro popolo non ha che costumi locali ed è necessario che acquisti costumi nazionali; voi finalmente non avete armate e le potenze che potrebbero diventar vostre nemiche ne hanno di molto forti… Ma voi avete tutto ciò che può produrlo; una popolazione numerosa, campagne fertili, e l'esempio che in tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo dell'Europa.„
Era difficile che tali parole, pronunciate in così straordinarie circostanze e da così straordinario oratore, non commovessero ad alto grado gli animi dei convenuti. Il discorso del Primo Console fu interrotto ad ogni periodo da clamorosi e vivissimi applausi. L'affetto della patria vibrava in tutti quei cuori. Li avvolgeva l'atmosfera della grandezza, il sentimento dell'avvenire. Parlarono il cittadino Mariani, il cittadino Prina, l'arcivescovo Codronchi. Si lessero gli articoli della Costituzione. Si aspettava con ansietà la proclamazione del nome del Vicepresidente che, in forza dell'art. 49, Titolo VIII, era di libera ed assoluta scelta del Presidente. Il Primo Console, con una di quelle mosse efficaci, di cui possedeva il segreto, levossi, chiamò a sè il conte Melzi, lo abbracciò e lo collocò a sedere al suo fianco; poi, presolo per la mano, lo additò all'Assemblea come quegli in cui riponeva piena fiducia e lo proclamò Vicepresidente della Repubblica Italiana . Il nome dell'uomo e il nome dello Stato accrebbero gli entusiasmi; qualche memoria del tempo pretende perfino che gli applausi al Melzi soverchiassero quelli dedicati a Bonaparte. Ad ogni modo il Primo Console poteva essere contento dell'opera sua. Aveva reso tutti contenti. Non gli doveva accader più nel corso successivo della sua meravigliosa carriera.
Francesco Melzi aveva quarantotto anni allorchè assumeva così alto incarico di governo frammezzo a così alte difficoltà. Avrebbe potuto dirsi nella pienezza delle sue facoltà morali e fisiche, se queste ultime non avessero già cominciato ad essere offese da frequenti attacchi di gotta.
Figlio del conte Gaspare e di Teresa d'Eril, damigella spagnuola del seguito della governatrice Rosa di Harrach, aveva appena 21 anni, quando Maria Teresa lo nominò fra i decurioni municipali, tratta dalla grande riputazione che in paese s'era già levata di lui per l'ingegno pronto e l'amabile vivacità. Era stato educato, come la massima parte dei patrizj d'allora, in un collegio di gesuiti, a Modena; ed aveva dovuto resistere, con sagacia e volontà maggiore degli anni, alle pressioni ed alle seduzioni di quei terribili educatori, che, indovinando le forti qualità del loro allievo, avevano concepita la speranza di chiuderlo nel loro bruno sodalizio.
Nella gioventù milanese ottenne presto quella prevalenza che non isfugge all'ingegno, soprattutto quando è sorretto dalla ricchezza. Era l'idolo delle riunioni gaje, l'oracolo delle adunanze pensose. Cognato di Pietro Verri, che aveva sposato in ultime nozze sua sorella Vincenza, era legato per mezzo suo a quel manipolo di preclari intelletti, che, ormai sul tramonto, si vedevano con soddisfazione rivivere in quel giovane forte, serio e gentile. Non era stato esente da un vizio, pur troppo caratteristico delle società eleganti, quello del giuoco; anzi vi si era abbandonato con una forza che ad alcuni amici pareva minacciosa pel suo avvenire. La nobiltà della sua indole doveva trionfare della bassa tentazione. Un giorno si trovava al verde, e si recò a chiedere duemila scudi in prestito ad un amico in cui riponeva grande fiducia. L'amico glieli rifiutò nettamente. “Sarebbero pochi„ gli rispose “pel conte Melzi; sono troppi per un giuocatore.„ Il giovane fu così tocco della severa risposta che abbandonò le bische e non giocò più.
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