Giovanni Boccaccio - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
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- Название:Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2: краткое содержание, описание и аннотация
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Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui decies distat ab Urbe novem.
E, secondo che Eusebio in libro Temporum dice, egli nacque nella patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual cosa esso dice nel detto libro:
Quidquid conabar scribere, versus erat.
Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:
Saepe pater dixit: – Studium quid inutile temptas?
Maeonides nullas ipse reliquit opes. —
Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria, se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e, oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.
Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello che chiamiamo lʼ Epistole . Appresso ne compose uno, partito in tre, il quale alcuno chiama Liber amorum , altri il chiamano Sine titulo : e può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra, e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De fastis et nefastis , cioè deʼ dí neʼ quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era, narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari; e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale è partito in tre, e chiamasi De arte amandi , dove egli insegna e aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un altro, il quale intitolò De remedio , dove egli sʼingegna dʼinsegnare disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta. Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel libro De tristibus , convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio dʼemendarlo.
Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama Phasis . E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello De tristibus , in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò In Ibin . Composevi quello che egli intitola De Ponto , e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.
La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come egli scrive nel libro De tristibus , mostra fosse lʼuna delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:
Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error.
La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:
Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?
Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere, quivi:
Alterius facti culpa silenda mihi est.
La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro De arte amandi , il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, nella predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.
Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il costrinse a morire.
«E lʼultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di laudevole ingegno molto, sí come nel libro Delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito, leggendo, del suo libro, dovette una volta dire: – Che dite? mancaci cosa alcuna ad essere equale al Culice? – Culice fu un libretto metrico, il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia laudevole e bello, non è però da comparare allʼ Eneida : e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼ Eneida ; della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse, maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò, ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.
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