Giovanni Boccaccio - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2: краткое содержание, описание и аннотация

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«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito sʼera, sí come nel Genesi si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo: – Lasciami. – Al qual Giacob rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò come era il nome suo, a cui esso rispose: – Io son chiamato Iacob. – E quellʼuomo disse: – Non fia cosí: il tuo nome sará Israel, percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai contro agli altri uomini. – E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa cagione i giudei non mangiano di nervo.

«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva origine tratta.

«E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac, suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban, fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole, Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo, similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel. E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.

Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne portassero.

«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia, Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi», cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran salvati;» – e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo, furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene adoperare, la porta del paradiso.

«Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta compagnia».

Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire, dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono dʼalberi.

«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati, «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía». Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon tali, che per gran cose conosciuti fossero.

«Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel quale eravamo.

– «O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼ Etica dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste lode dallʼautore attribuite gli sono.]

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