Giovanni Boccaccio - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2: краткое содержание, описание и аннотация

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«Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino a qui abbiam veduti, «gli diparte?» – in quanto hanno alcuna luce, dove quegli, che passati sono, non hanno.

«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me: – Lʼonrata», cioè lʼonorata, «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo. – [Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]

«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè da me, «udita», cosí fatta: – «Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua», cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita», – quando andò al soccorso dellʼautore, come di sopra è dimostrato.

«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire», come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna: «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser di leggiere animo e di volubile.

«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire: – Mira colui con quella spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.

«Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di credere Lucano dove dice:

Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,

dicendo dʼOmero.

Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse: – Colui che al presente nasce morrá cieco; – e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto ab « o », che in latino viene a dire «io», e « mi », che in latino viene a dire «non», ed « ero », che in latino viene a dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e, come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade , distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose similmente lʼ Odissea , in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion deglʼiddii, e composene uno chiamato Egam , la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea che la Iliada dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

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