Volodyk - Paolini2-Eldest
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Corrile dietro! esclamò Saphira.
Cosa?
Non possiamo permetterci che sia arrabbiata con te. Vai a scusarti.
L'orgoglio del giovane si ribellò. No! È colpa sua, non mia.
Vai a scusarti, Eragon, o ti riempirò la tenda di carogne. Non era una minaccia inconsistente.
Come faccio?
Saphira riflettè per qualche istante, poi gli disse come fare. Senza più obiettare, Eragon balzò in piedi e corse dietro ad Arya, piantandosi di fronte a lei. L'elfa fu costretta a fermarsi e lo squadrò con espressione sdegnosa. Lui si toccò le labbra con due dita, e disse: «Arya Svit-kona» usando l'appellativo onorifico appena imparato per una donna di grande saggezza. «Le mie parole sono state scortesi, e per questo imploro il tuo perdono. Saphira e io eravamo soltanto preoccupati per il tuo benessere. Dopo quanto hai fatto per noi, ci è sembrato il minimo offrirti il nostro aiuto in cambio, se ti occorre.»
Finalmente Arya si distese e disse: «Apprezzo le vostre premure. E anch'io ho parlato in maniera scortese.» Abbassò lo sguardo. Nell'oscurità, i contorni delle sue spalle e del suo busto avevano una rigidità innaturale. «Mi chiedi cosa mi affligge, Eragon. Vuoi davvero saperlo? Allora te lo dirò.» La sua voce si ridusse a un fievole sussurro. «Ho paura.» Sconcertato, Eragon rimase senza parole, e lei gli passò accanto, lasciandolo solo nella notte.
Ceris
Il mattino del quarto giorno, mentre Eragon cavalcava insieme a Shrrgnien, il nano disse: «Dimmi una cosa. È vero che gli uomini hanno dieci dita dei piedi come si dice? Sai, in verità non ho mai varcato i nostri confini prima d'ora.» «Certo che abbiamo dieci dita!» esclamò Eragon, sbalordito. Si spostò di lato sulla sella, alzò il piede destro, si tolse lo stivale e la calza, e agitò le dita sotto gli occhi stupefatti di Shrrgnien. «Voi no?»
Shrrgnien scrollò la testa con aria solenne. «Nooo, noi abbiamo sette dita per ciascun piede. È così che ci ha fatti Helzvog. Cinque è troppo poco, e sei è il numero sbagliato, ma sette... sette è il numero giusto.» Scoccò un'altra occhiata al piede di Eragon, poi spronò avanti il mulo e cominciò a parlare animatamente con Hedin e Ama, che alla fine gli consegnarono parecchie monete d'argento.
Ho idea, disse Eragon, rinfilandosi lo stivale, di essere appena stato oggetto di una scommessa. Per qualche ragione, Saphira lo trovò molto divertente.
Al calar della sera, mentre sorgeva la luna piena, il corso del fiume Edda si avvicinò ai margini della Du Weldenvarden. Cavalcarono lungo uno stretto sentiero attraverso fitti cespugli di sanguinella e rosa selvatica, che riempivano l'aria della sera con la loro tiepida fragranza.
Il cuore di Eragon era colmo di trepida attesa mentre scrutava l'oscura foresta, sapendo che erano già entrati nel dominio degli elfi ed erano vicini a Ceris. Era teso sulla sella di Fiammabianca, le redini strette in pugno. { L'eccitazione di Saphira era grande quanto la sua; volava sulle loro teste facendo guizzare la coda avanti e indietro con impazienza. Eragon aveva la sensazione di camminare in un sogno. Non sembra vero, disse.
Già. Qui le antiche leggende ancora camminano sulla terra.
Alla fine giunsero in una piccola radura erbosa, tra il fiume e la foresta. «Fermatevi» disse Arya a bassa voce. Poi s'incamminò fino a raggiungere il centro del prato rigoglioso e gridò nell'antica lingua: «Fatevi avanti, fratelli miei! Non avete nulla da temere. Sono io, Arya di Ellesméra. I miei compagni sono amici e alleati, e le loro intenzioni sono benevole.» Aggiunse altre parole, ma per Eragon erano sconosciute. Per lunghi minuti non si udì che il mormorio del fiume che scorreva alle loro spalle, finché da sotto il fogliame immobile si levò una voce elfica così esile e rapida che Eragon non riuscì a coglierne il senso. Arya rispose «Sì.»
Con un fruscìo di fronde, due elfi comparvero ai margini della foresta, mentre altri due uscivano allo scoperto sui rami di una quercia nodosa. Quelli a terra portavano lunghe lance dalla punta bianca, mentre gli altri impugnavano gli archi. Tutti indossavano tuniche del colore del muschio e della corteccia, sotto mantelli svolazzanti fermati sulle spalle da spille d'avorio. Uno aveva la chioma nera come quella di Arya, mentre gli altri tre avevano capelli biondi come raggi di stelle.
Gli elfi saltarono giù dagli alberi e abbracciarono Arya, ridendo con le loro voci pure e cristalline. Si presero per mano e danzarono in cerchio attorno a lei, come bambini, cantando allegri mentre giravano sul prato.
Eragon li osservò stupito. Arya non gli aveva mai dato ragione di sospettare che agli elfi piacesse - o addirittura che sapessero - ridere. Era un suono meraviglioso, come flauti e arpe che vibravano di delizia per la loro stessa musica. Avrebbe potuto ascoltarlo per sempre.
Poi Saphira discese oltre il fiume e atterrò accanto a Eragon. Alla sua comparsa, gli elfi gridarono allarmati e puntarono le armi contro di lei. Arya si affrettò a parlare in tono conciliante, indicando prima Saphira, poi Eragon. Quando si fermò per riprendere fiato, Eragon si tolse il guanto della mano destra e voltò il palmo per mostrare il gedwéy ignasia al chiaro di luna. Poi disse, come aveva fatto con Arya tanto tempo prima: «Eka ai fricai un Shur'tugal.» Sono un Cavaliere e un amico. Rammentando la lezione del giorno prima, si sfiorò le labbra, aggiungendo: «Atra esterni ono thelduin.» Gli elfi abbassarono le armi, mentre i volti affilati si illuminavano di gioia. Si premettero due dita sulle labbra e s'inchinarono a lui e a Saphira, mormorando la loro risposta nell'antica lingua.
Poi si rialzarono, indicarono i nani e risero come per una battuta allusa. Tornando verso la foresta, fecero un cenno con le mani e dissero: «Venite, venite!»
Eragon seguì Arya insieme a Saphira e ai nani, che brontolavano fra di loro. Passando sotto il denso fogliame degli alberi, piombarono in una tenebra vellutata, dove solo qualche sprazzo di luna scintillava fra i rami e le foglie. Eragon sentiva gli elfi ridere e sussurrare, ma non riusciva a vederli. Di tanto in tanto gridavano indicazioni quando lui o i nani esitavano.
Davanti a loro, un falò ardeva fra gli alberi, spandendo ombre guizzanti che danzavano sul tappeto di foglie come tanti folletti. Quando Eragon entrò nel cono di luce, vide tre piccoli capanni addossati al tronco di un'enorme quercia. In alto, fra i rami, c'era una piattaforma di legno dove una sentinella poteva sorvegliare il fiume e la foresta. Fra due capanni era appeso un palo, da cui pendevano mazzi di piante lasciate a essiccare.
I quattro elfi svanirono nei capanni per tornare con le braccia cariche di frutta e verdura - niente carnee cominciarono a preparare la cena per gli ospiti. Mentre lavoravano, canticchiavano a bassa voce, passando da una melodia all'altra senza mai interrompersi. Quando Orik chiese i loro nomi, l'elfo con i capelli neri indicò se stesso e disse: «Io sono Lifaen del Casato di Rìlvenar. E i miei compagni sono Edurna, Celdin e Nari.»
Eragon si sedette accanto a Saphira, lieto dell'opportunità di riposare e osservare gli elfi. Benché fossero tutti e quattro maschi, i loro volti ricordavano quello di Arya, con le labbra delicate, i nasi sottili e i grandi occhi obliqui che brillavano sotto le sopracciglia arcuate. Il resto del corpo era proporzionato, con spalle strette e braccia e gambe affusolate. Erano più nobili e leggiadri di qualsiasi umano Eragon avesse mai visto, sebbene in maniera esotica, rarefatta. Chi mai avrebbe pensato che un giorno avrei visitato il regno degli elfi? si disse Eragon. Sorrise, e si appoggiò alla parete di un capanno, cullato dal calore del fuoco. Sopra di lui, i vigili occhi azzurri di Saphira seguivano ogni movimento degli elfi.
C'è più magia in questa razza, osservò lei alla fine, che negli umani o nei nani. Loro non sentono di provenire dalla terra o dalla pietra, ma piuttosto da un altro regno. Appartengono a questo mondo soltanto per metà, come riflessi nell'acqua.
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