Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Eragon spinse la spada verso l'alto, bruciando l'enorme trave di legno che sbarrava la porta dall'interno. Non appena sentì diminuire la resistenza contro la lama di Brisingr, la ritrasse ed estinse la fiamma. S'infilò i guanti imbottiti per non scottarsi impugnando i bordi incandescenti di uno dei battenti e lo tirò a sé con uno sforzo immane. Anche l'altro battente si aprì, come dotato di volontà propria, ma un attimo dopo Eragon si accorse che era stata Saphira a spingerlo dall'interno: la dragonessa sedeva a destra dell'entrata, fissandolo con i suoi luccicanti occhi color zaffiro. Alle sue spalle, i resti delle quattro catapulte distrutte giacevano sul terreno.

Eragon si fece da parte accanto a lei, mentre i Varden invadevano il cortile, riempiendo l'aria delle loro ruggenti grida di battaglia. Stremato, appoggiò una mano sulla cintura di Beloth il Savio e integrò la forza che cominciava a mancargli con una parte dell'energia conservata nei dodici diamanti nascosti nella cintura. Offrì il resto a Saphira, altrettanto stanca, ma lei rifiutò, dicendo: Tienila per te, non ne è rimasta molta. E poi quello che mi serve davvero è un vero pasto e una buona notte di sonno.

Eragon si appoggiò contro il suo fianco e socchiuse le palpebre. Presto, disse, presto sarà tutto finito.

Lo spero, disse lei.

Fra i guerrieri che gli passavano accanto, comparve Angela con la sua strana corazza flangiata verde e nera e con l'hûthvír, il bastone a doppia lama dei sacerdoti nani. L'erborista si fermò davanti a Eragon e con un luccichio malizioso negli occhi disse: «Una scena impressionante, ma non credi di aver esagerato?»

«Che vuoi dire?» chiese Eragon, aggrottando la fronte.

Lei inarcò un sopracciglio. «Avanti, era proprio necessario dare fuoco alla spada?»

A quelle parole, Eragon si tranquillizzò e rise. «No, per la cancellata no. Ma mi sono divertito. E poi non dipende da me. Ho chiamato la spada Fuoco nell'antica lingua e ogni volta che pronuncio quella parola la lama s'incendia, come un ramo secco in un falò.»

«Hai chiamato la tua spada Fuoco?» esclamò Angela con una nota d'incredulità. «Fuoco? Che nome banale! Tanto valeva chiamarla Lama Fiammeggiante. Fuoco... Bah! Non avresti preferito avere una spada che si chiamasse Mordipecore o Spaccacrisantemi o qualche altro nome più fantasioso?»

«Ho già una Mordipecore qui» disse Eragon, appoggiando una mano sul fianco di Saphira. «Perché dovrei volerne un'altra?»

Angela gli rivolse un ampio sorriso. «Allora non sei del tutto privo di spirito! Credevo che fossi un caso disperato.» E si allontanò saltellando verso la fortezza, facendo roteare il suo bastone a doppia lama e borbottando: «Fuoco? Bah!»

Saphira emise un ringhio sordo e disse: Bada a chi chiami Mordipecore, Eragon, o potresti essere morso.

Va bene, Saphira.

LO SPETTRO DEL DESTINO

Nel frattempo anche Blödhgarm e i suoi compagni elfi erano arrivati nella corte, ma Eragon li ignorò cercando invece Arya. Quando la vide correre accanto al destriero di Jörmundur, sventolò lo scudo per attirare la sua attenzione.

Arya lo notò e lo raggiunse, muovendosi con la grazia di una gazzella. Da quando si erano separati si era procurata uno scudo, un elmo con la visiera e una cotta di maglia. Il metallo della sua armatura luccicava nella penombra grigia che pervadeva la città. Come si fermò, Eragon le disse: «Io e Saphira entreremo nella fortezza dall'alto per cercare di catturare Lady Lorana. Vuoi venire con noi?»

Arya annuì con un deciso cenno del capo.

Balzando su una delle zampe di Saphira, Eragon risalì in sella e Arya seguì il suo esempio un attimo dopo, stringendosi a lui, gli anelli della cotta di maglia che premevano contro la sua schiena.

Saphira dispiegò le ali di velluto e prese il volo, lasciando Blödhgarm e gli altri elfi a guardarla dal basso, frustrati.

«Non dovresti abbandonare le tue guardie con tanta leggerezza» mormorò Arya nell'orecchio di Eragon. Gli cinse la vita e lo strinse forte mentre Saphira virava sul cortile.

Prima di aver modo di rispondere, Eragon avvertì il contatto della vasta mente di Glaedr: per un momento la città sotto di loro scomparve e lui vide e percepì solo ciò che Glaedr vedeva e percepiva.

Piccole frecce pungenti come calabroni gli rimbalzavano sul ventre mentre sorvolava le rade case di legno dei bipedi dalle orecchie rotonde. L'aria era calma e solida sotto le sue ali, perfetta per il volo. La sella strofinò contro le squame quando Oromis sulla sua schiena cambiò posizione.

Glaedr estrasse la lingua e assaporò l'aroma allettante di legna bruciata, carne cotta e sangue versato. Era già stato molte volte in quel luogo, ma ai tempi della sua giovinezza era noto con un nome diverso da Gil'ead, e gli unici abitanti erano gli elfi dal sorriso moderato e dalla lingua svelta, e gli amici degli elfi. Le sue visite precedenti erano sempre state piacevoli, ma lo addolorò ricordare i due compagni di nido che erano morti lì, uccisi dai Rinnegati dalla mente perversa.

L'occhio pigro del sole indugiava sull'orizzonte. A nord, la grande acqua di Isenstar era una tremolante lamina d'argento. Sotto di loro, il branco di orecchie a punta capeggiato da Islanzadi era schierato intorno alla città-formicaio. Le loro armature luccicavano come schegge di ghiaccio. Una cappa di fumo azzurrino copriva l'intera zona, densa come la fredda nebbia del mattino.

E da sud, il piccolo Castigo dagli artigli aguzzi volava verso Gil'ead, urlando infuriato perché tutti sentissero la sua sfida. Murtagh figlio di Morzan sedeva sul suo dorso e nella sua mano destra Zar'roc brillava lucente come un'unghia.

Glaedr provò grande tristezza nel vedere i due miserabili cuccioli. Quanto avrebbe voluto non doverli uccidere. Ancora una volta, pensò, drago combatte drago e Cavaliere combatte Cavaliere, e tutto per colpa di quel Galbatorix distruttore di uova. A malincuore, Glaedr accelerò il battito delle ali e aprì gli artigli, preparandosi a dilaniare i nemici.

Il collo di Eragon subì un colpo di frusta quando Saphira effettuò una brusca imbardata e precipitò per una ventina di piedi prima di recuperare l'assetto. L'hai visto anche tu? gli chiese.

Sì. Preoccupato, Eragon scoccò un'occhiata alla bisaccia che conteneva il cuore dei cuori di Glaedr, domandandosi se era il caso di intervenire in aiuto di Oromis e Glaedr. Poi pensò che fra gli elfi dovevano esserci molti stregoni, e si sentì confortato. Oromis e Glaedr non avrebbero avuto bisogno del loro aiuto.

«Qualcosa non va?» chiese Arya. La sua voce squillò nell'orecchio di Eragon.

Oromis e Glaedr stanno per scontrarsi con Castigo e Murtagh, rispose Saphira.

Eragon sentì Arya irrigidirsi contro di lui. «Come fate a saperlo?» chiese.

«Te lo spiego dopo. Spero solo che vada tutto bene.»

«Lo spero anch'io» disse Arya.

Saphira volò alta sopra la fortezza, poi planò silenziosa senza battere le ali e atterrò sulla guglia della torre più alta. Mentre Eragon e Arya s'inerpicavano sul ripido tetto, disse: Ci vediamo nella sala di sotto. La finestra qui è troppo piccola per me. E decollò, sollevando turbini di vento che investirono Eragon e Arya.

I due scivolarono fino al bordo del tetto e si calarono sullo stretto cornicione di pietra otto piedi più in basso. Cercando di non pensare alla vertiginosa caduta che lo aspettava se avesse messo un piede in fallo, Eragon strisciò lentamente fino a una finestra a croce. S'intrufolò nell'apertura e si ritrovò in una grande stanza dove ad aspettarlo c'erano solo fasci di dardi e rastrelliere di pesanti balestre. Se c'era stato qualcuno nella stanza, all'arrivo di Saphira doveva essere fuggito. Anche Arya s'introdusse nella stanza dalla piccola finestra. Dopo un'ispezione sommaria, gli indicò una scala in un angolo e si affrettò a raggiungerla, gli stivali di pelle che calpestavano silenziosi il pavimento di pietra.

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