Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Sì, Rhunön-elda.
Allora Rhunön cominciò a muovergli le braccia, le gambe, gli fece ruotare la testa e saggiò le altre capacità di movimento del suo corpo. Per quanto fosse strano per Eragon sentire la testa e le membra muoversi senza il suo controllo, fu ancora più strano quando i suoi occhi cominciarono a guizzare da un parte e dall'altra come per volontà propria. Provò un'improvvisa sensazione d'impotenza che lo gettò nel panico. Quando Rhunön lo fece camminare e il suo piede urtò lo spigolo della fucina, Eragon riprese subito il controllo di sé e afferrò il corno dell'incudine per paura di cadere.
Non t'immischiare, lo rimbrottò Rhunön. Se ti cedono i nervi nel momento sbagliato mentre stiamo forgiando, potresti farti molto male. Potresti farmelo tu, se non stai attenta, ribatté Eragon.
Abbi pazienza, Ammazzaspettri. Avrò imparato prima che faccia buio.
Mentre aspettavano che l'ultima luce svanisse dal cielo di velluto, Rhunön preparò la fucina e si esercitò a maneggiare i diversi strumenti. L'impaccio iniziale con il corpo di Eragon presto scomparve, anche se a un certo punto, allungando la mano per prendere un martello, gli fece urtare la punta delle dita contro il bordo del tavolo. Per il dolore a Eragon vennero le lacrime agli occhi. Rhunön si scusò e disse: Hai le braccia più lunghe di me. Qualche minuto dopo, quando stavano per iniziare, commentò: È una fortuna che tu abbia la forza e la velocità di un elfo, Ammazzaspettri, altrimenti non avremmo speranza di finire entro stanotte.
Rhunön prese i pezzi di acciaioluce morbido e duro che aveva deciso di utilizzare e li sistemò nella forgia. Dietro sua richiesta, Saphira scaldò il metallo, schiudendo appena le fauci per sprigionare un sottile getto di fiamme blu e bianche. La ruggente vampa di fuoco illuminò l'intero patio di una potente luce azzurra, che fece scintillare le squame di Saphira di un bagliore accecante.
Quando l'acciaioluce divenne di un rosso incandescente, Rhunön fece prendere a Eragon un paio di tenaglie per toglierlo dal torrente di fiamme. Lo posò sull'incudine e con il martello cominciò a battere rapidamente i blocchi di metallo per appiattirli fino a farli diventare spessi meno di un quarto di pollice. La superficie del metallo arroventato scintillava di pagliuzze incandescenti. Non appena finiva una lastra, Rhunön la faceva cadere in un trogolo di acqua salata lì accanto.
Dopo aver battuto tutto l'acciaioluce, Rhunön estrasse dal trogolo le lastre - Eragon sentì sulle braccia il calore emanato dal liquido - e le strofinò a una a una con un pezzo di arenaria per rimuovere le scaglie nere che si erano formate sulla superficie. La pulizia portò alla luce la struttura cristallina del metallo, che Rhunön studiò con grande interesse. Divise ulteriormente il metallo per durezza e purezza, secondo le qualità mostrate dai cristalli.
Eragon percepiva ogni pensiero e sentimento di Rhunön, e fu sorpreso dalla vastità delle sue conoscenze; nel metallo l'elfa vedeva cose di cui lui non avrebbe mai sospettato l'esistenza, e i calcoli che faceva in merito al trattamento andavano al di là della sua comprensione. Riuscì persino a cogliere il suo disappunto per come aveva impugnato il martello mentre appiattiva l'acciaio.
Il disappunto di Rhunön aumentò finché non esplose. Bah! Guarda queste ammaccature nel metallo! Non posso forgiare una lama così. Il mio controllo sulle tue braccia e le tue mani non è abbastanza preciso da permettermi di creare una spada degna.
Prima che Eragon potesse intervenire, Saphira disse: Gli attrezzi non fanno l'artista, Rhunön-elda. Di sicuro saprai trovare un rimedio a questo inconveniente.
Inconveniente? sbuffò Rhunön. Non ho più coordinazione di una dilettante. Sono un'estranea in casa di estranei. Continuando a brontolare, si lasciò andare a elucubrazioni mentali incomprensibili per Eragon, poi disse: Be', forse ho una soluzione, ma vi avverto, non continuerò se non riuscirò a mantenere il mio abituale livello di maestria.
Rhunön non spiegò la soluzione né a Eragon né a Saphira, ma una per una sistemò le lastre di metallo sull'incudine e le spezzò fino a ottenere scaglie non più larghe di un petalo di rosa. Raccolta la metà delle scaglie di acciaioluce più duro, le ammucchiò formando un mattone, che poi ricoprì di argilla e corteccia di betulla per tenerlo insieme. Posò il mattone su una grossa pala d'acciaio col manico lungo sette piedi, simile a quelle usate dai panettieri per infilare e togliere il pane dal forno bollente. Appoggiò il piatto della pala al centro della forgia e poi fece indietreggiare Eragon, senza però fargli mollare l'estremità del manico. Poi chiese a Saphira di ricominciare a sputare fuoco, e di nuovo il patio luccicò di un tremolante bagliore azzurro. Il calore era così intenso che Eragon ebbe la sensazione che la sua pelle stesse sfrigolando, e notò che le pietre di granito con cui era costruita la forgia si erano colorate di un giallo brillante.
L'acciaioluce avrebbe impiegato oltre mezz'ora a raggiungere la giusta temperatura in un fuoco di carbonella, ma grazie all'inferno scatenato dalle fauci di Saphira impiegò appena un paio di minuti per diventare bianco incandescente. A quel punto, Rhunön ordinò a Saphira d'interrompere la fiammata, e quando la dragonessa chiuse le fauci, la fucina piombò nell'oscurità.
Pilotato da Rhunön, Eragon tolse la pala dalla forgia e trasportò l'arroventato mattone di metallo coperto di argilla fino all'incudine, dove afferrò un martello e saldò le scaglie di acciaioluce in un solo pezzo. Continuò a battere il metallo allungandolo in una barra, poi lo tagliò in mezzo e lo ripiegò su se stesso, saldando insieme i due pezzi. I tintinnii costanti e regolari del martello sull'acciaio echeggiavano come rintocchi di campane fra gli antichi alberi che circondavano il patio.
Quando il colore dell'acciaioluce da bianco incandescente divenne giallo, Rhunön guidò Eragon perché lo riportasse alla forgia, e di nuovo Saphira lo irrorò con il fuoco scaturito dal suo ventre. Per sei volte Rhunön, attraverso Eragon, arroventò e piegò l'acciaioluce, e ogni volta il metallo diventava più liscio e più flessibile, fino a quando non raggiunse un livello di malleabilità tale che lo si poté piegare senza rischiare che si rompesse.
Mentre Eragon martellava il metallo, ogni movimento dettato da Rhunön, l'elfa cominciò a cantare sia con la voce di lui che con la propria, formando una piacevole armonia che s'innalzava e calava al ritmo dei colpi di martello. Eragon fu percorso da un brivido lungo la schiena quando sentì che Rhunön incanalava un costante flusso di energia nelle parole che pronunciavano, e si rese conto che la canzone conteneva incantesimi per fare, per plasmare e per legare. Con le loro due voci, Rhunön cantava del metallo che giaceva sull'incudine, descrivendone le qualità - alterandole in modi che superavano la comprensione di Eragon - e impregnando l'acciaioluce di una complessa rete d'incantesimi mirati a dargli una forza e una resistenza di molto superiori a quelle di un qualsiasi altro metallo. Rhunön cantava anche del braccio con cui Eragon impugnava il martello e, sotto la gentile influenza della sua nenia, ogni colpo che lei dava con il braccio di lui finiva sul punto desiderato.
Rhunön temprò la barra di acciaioluce dopo averla piegata per la sesta e ultima volta. Ripeté lo stesso procedimento con l'altra metà delle scaglie di metallo duro, forgiando una barra identica alla prima. Poi raccolse i frammenti di metallo più morbido, che piegò e saldò dieci volte prima di ricavarne un cuneo corto e pesante.
A quel punto, Rhunön chiese a Saphira di scaldare per l'ennesima volta le due barre di acciaio più duro. Le appoggiò ancora incandescenti sull'incudine, fianco a fianco, le afferrò entrambe con un paio di tenaglie per ciascuna estremità e cominciò a torcerle l'una sull'altra. Sprizzarono scintille quando prese a martellare le barre attorcigliate per saldarle in un unico pezzo. Rhunön piegò, saldò e allungò la massa di acciaioluce altre sei volte. Quando fu soddisfatta della qualità del metallo, appiattì l'acciaioluce in una spessa lamina rettangolare, tagliò la lamina per il lungo con uno scalpello affilato e piegò ciascuna metà al centro, formando una lunga V poco profonda.
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