Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Non posso, piccolo mio. Questa è una decisione che devi prendere da solo. I modi degli uomini non sono i modi dei draghi. Toccasse a me, gli strapperei la testa e banchetterei col suo corpo, ma questo per te sarebbe sbagliato, immagino.
Resterai al mio fianco, qualunque cosa io decida?
Come sempre, piccolo mio. Ora riposa. Andrà tutto bene.
Confortato, Eragon fissò il vuoto fra le stelle e rallentò la respirazione,
scivolando nello stato di trance che ormai sostituiva in lui il sonno profondo. Pur restando consapevole di ciò che lo circondava, sullo sfondo delle brillanti costellazioni vide i protagonisti dei suoi sogni a occhi aperti farsi avanti per compiere azioni oscure e confuse, com'era loro abitudine.
ATTACCO ALL'HELGRIND
Mancavano quindici minuti all'alba quando Eragon si svegliò. Schioccò le dita due volte per svegliare Roran, poi raccolse le coperte e le arrotolò in uno stretto fagotto.
Alzatosi a fatica, Roran fece lo stesso con il suo giaciglio.
Si scambiarono un'occhiata, percorsi da un fremito d'eccitazione. «Se muoio» disse Roran, «ti prenderai cura di Katrina?»
«Lo farò.»
«Dille che sono andato in battaglia con la gioia nel cuore e il suo nome
sulle labbra.»
«Lo farò.»
Eragon mormorò una breve frase nell'antica lingua. Il calo di energia fu
quasi impercettibile. «Ecco fatto. Servirà a filtrare l'aria davanti a noi e ci proteggerà dagli effetti paralizzanti del fiato dei Ra'zac.»
Dalla bisaccia trasse l'involto di tela grezza dove aveva conservato la sua cotta di maglia e lo aprì. Il corsaletto un tempo scintillante era ancora incrostato di sangue dalla battaglia sulle Pianure Ardenti, e il misto di sangue rappreso, sudore e incuria aveva permesso alla ruggine d'infiltrarsi fra gli anelli. La maglia però era integra, dato che Eragon l'aveva riparata prima di partire per l'Impero.
Eragon indossò il corsaletto di maglia con il dorso di cuoio, arricciando il naso per il lezzo di morte e disperazione che lo impregnava, poi si legò i bracciali agli avambracci e i gambali agli stinchi. Sulla testa infilò una calotta imbottita, un cappuccio di maglia e un semplice elmo d'acciaio. Aveva perduto il proprio - quello che aveva indossato nel Farthen Dûr e che i nani avevano inciso con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum - insieme allo scudo durante il duello aereo fra Saphira e Castigo. Le mani erano protette da guanti di maglia.
Roran si vestì allo stesso modo, con uno scudo di legno in più. Lo scudo era contornato da una fascia di ferro morbido che serviva a parare meglio i colpi e a trattenere la spada del nemico. Non c'era scudo a proteggere il braccio sinistro di Eragon: servivano tutte e due le mani per manovrare il bastone di biancospino.
A tracolla, Eragon portava la faretra che gli aveva donato la regina Islanzadi. Oltre alle venti frecce di legno di quercia dall'impennaggio di piume di cigno, conteneva l'arco di filigrana d'argento che la regina aveva cantato per lui da un albero di tasso. L'arco era già incordato e pronto all'uso.
Saphira grattò il terriccio sotto i piedi con impazienza. Vogliamo partire o no?
Dopo aver appeso bisacce e vettovaglie ai rami di un albero di ginepro, Eragon e Roran si arrampicarono sul dorso di Saphira. Non furono costretti a perdere tempo per sellarla; la dragonessa aveva tenuto addosso la bardatura per tutta la notte. Eragon sentì sotto di sé il calore del cuoio sagomato. Afferrò saldamente la punta cervicale che aveva davanti - per sorreggersi in caso di brusche virate - mentre Roran gli cingeva la vita con un braccio muscoloso, l'altra mano impegnata a brandire il martello.
Una lastra di ardesia s'incrinò sotto il peso di Saphira quando la dragonessa si accovacciò per prendere lo slancio e spiccare un unico balzo verso il ciglio del dirupo che affacciava sulla gola, dove rimase in equilibrio per un istante prima di spiegare le ali possenti. Le sottili membrane emisero un cupo ronzio quando Saphira le dispose perpendicolari al cielo. In quella posizione, sembravano due azzurre vele traslucide.
«Non mi stringere così» borbottò Eragon.
«Scusa» disse Roran, allentando l'abbraccio.
Non poterono più parlarsi, perché Saphira balzò di nuovo. Una volta raggiunto il culmine dello slancio, la dragonessa abbassò le ali con un sonoro fruscio prolungato e si spinse verso l'alto. A ogni battito d'ali si avvicinavano sempre di più ai sottili strati di nubi.
Mentre Saphira virava verso l'Helgrind, Eragon scoccò un'occhiata a sinistra e scoprì che, grazie all'altezza, riusciva a scorgere un buon tratto del Lago di Leona, a qualche miglio di distanza. Un denso strato di nebbia, grigia e spettrale nel tenue chiarore dell'aurora, aleggiava sull'acqua, come se sulla superficie liquida ardesse un enorme fuoco fatuo. Eragon aguzzò la vista, ma nonostante i suoi occhi da falco non riuscì a distinguere la sponda opposta né le propaggini meridionali della Grande Dorsale. Provò una fitta di nostalgia: non vedeva le montagne della sua infanzia da quando aveva lasciato la Valle Palancar.
A nord sorgeva Dras-Leona, una massa enorme e indistinta che si stagliava tozza contro il muro di nebbia che ne orlava i confini occidentali. L'unico edificio che Eragon riuscì a identificare fu la cattedrale dove i Ra'zac lo avevano attaccato; la sua guglia torreggiava sul resto della città come una punta di lancia munita di barbigli.
Eragon sapeva che da qualche parte, nella piana che scorreva sotto di loro, c'erano ancora i resti dell'accampamento dove i Ra'zac avevano ferito a morte Brom. Si lasciò invadere ancora una volta dal furore e dalla pena che aveva provato quel giorno lontano - come anche all'epoca della morte di Garrow e della distruzione della fattoria - affinché quei violenti sentimenti gli infondessero il coraggio, anzi, la brama di affrontare i Ra'zac in battaglia.
Eragon, disse Saphira. Oggi non dobbiamo schermare le nostre menti e tenere segreti i nostri pensieri, vero?
No, a meno che non compaia qualche stregone.
Un ventaglio di luce dorata si levò all'orizzonte quando spuntò la cupola fiammeggiante del disco solare. Il mondo, che fino a un istante prima era stato avvolto da un'uniforme coltre grigiastra, s'illuminò di tutti i colori dell'arcobaleno: la nebbia risplendette azzurrina, l'acqua scintillò di un blu intenso, le mura che cingevano il centro di Dras-Leona rivelarono il loro sudicio intonaco di fango giallo, gli alberi si rivestirono di ogni possibile sfumatura di verde e il terreno avvampò di rosso e arancio. L'Helgrind, tuttavia, rimase com'era sempre: nero.
Mentre si avvicinavano, la montagna di pietra s'ingrandiva a vista d'occhio. Perfino dall'alto appariva inquietante.
Nel tuffarsi verso la base dell'Helgrind, Saphira fece una virata a sinistra così stretta che Eragon e Roran sarebbero precipitati se non avessero avuto le gambe legate alla sella. La dragonessa sfrecciò intorno alla massicciata di ghiaia e sopra l'altare dove i sacerdoti dell'Helgrind celebravano i loro riti. Il vento s'insinuò sotto la visiera dell'elmo di Eragon, che fu assordato dal potente sibilo.
«Allora?» gridò Roran, che non riusciva a vedere davanti.
«Gli schiavi sono spariti!»
Eragon si sentì come schiacciato da un peso enorme quando Saphira interruppe bruscamente la picchiata per risalire a spirale intorno all'Helgrind, in cerca dell'ingresso del covo dei Ra'zac.
Nemmeno un buco sufficiente a far passare un ratto, dichiarò la dragonessa. Rallentò e restò sospesa davanti a un crinale che congiungeva il terzo dei quattro picchi, il più basso, alla cima dominante. Lo sperone irregolare amplificava il rombo prodotto da ogni battito d'ali tanto da renderlo simile al fragore di un tuono. Eragon aveva gli occhi colmi di lacrime mentre l'aria gli frustava la pelle.
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