Алессандро Барикко - Novecento - Un monologo

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Novecento: Un monologo: краткое содержание, описание и аннотация

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Non è che non mi piacesse, quella vita. Era un modo strano di far quadrare i conti, ma funzionava.

Solo, non riuscivo a pensare veramente che potesse andare avanti per sempre. Se fai il marinaio allora è diverso, il mare è il tuo posto, ci puoi stare fino a schiattare e va bene così. Ma uno che suona la tromba… Se suoni la tromba, sul mare sei uno straniero, e lo sarai sempre. Prima o poi, è giusto che torni a casa. Meglio prima, mi dissi.

"Meglio prima," dissi a Novecento. E lui capì.

Si vedeva che non aveva nessuna voglia di vedermi scendere da quella scaletta, per sempre, ma dirmelo, non me lo disse mai. Ed era meglio così. L'ultima sera, stavamo lì a suonare per i soliti imbecilli della prima classe, venne il momento del mio assolo, incominciai a suonare e dopo poche note sentii il pianoforte che veniva con me, sottovoce, con dolcezza, ma suonava con me. Andammo avanti insieme, e io suonavo meglio che potevo, oddio, non ero Louis Armstrong, ma suonai proprio bene, con Novecento dietro che mi seguiva ovunque, come sapeva fare lui. Ci lasciarono andare avanti per un bel po', la mia tromba e il suo pianoforte, per l'ultima volta, lì a dirci tutte le cose che mica puoi dirti, con le parole. Intorno la gente continuava a ballare, non si era accorta di niente, non poteva accorgersene, cosa ne sapeva, continuavano a ballare, come se niente fosse. Forse qualcuno avrà giusto detto a un altro: "Guarda quello con la tromba che buffo, sarà ubriaco, o è matto. Guarda quello con la tromba: mentre suona, piange".

Come sono andate le cose, poi, dopo esser sceso da là, quella è un'altra storia. Magari mi riusciva perfino di combinare qualcosa di buono se solo non si ficcava di mezzo quella dannata guerra, pure lei.

Quella è stata una cosa che ha complicato tutto, non si capiva più niente. Bisognava avere un gran cervello, per raccapezzarsi. Bisognava averci delle qualità che io non avevo. Io sapevo suonare la tromba. E sorprendente come sia inutile, suonare una tromba, quando ch'hai una guerra intorno. E addosso. Che non ti molla.

Comunque, del Virginian, e di Novecento, non seppi più nulla, per anni. Non che me ne fossi dimenticato, ho continuato a ricordarmene sempre, mi capitava sempre di chiedermi: "Chissà cosa farebbe Novecento se fosse qui, chissà cosa direbbe, 'in culo la guerra' direbbe," ma se lo dicevo io non era la stessa cosa. Girava così male che ogni tanto chiudevo gli occhi e tornavo là sopra, in terza classe a sentire gli emigranti che cantavano l'Opera e Novecento che suonava chissà che musica, le sue mani, la sua faccia, l'Oceano intorno. Andavo di fantasia, e di ricordi, è quello che ti rimane da fare, alle volte, per salvarti. non c'è più nient'altro. Un trucco da poveri. ma funziona sempre.

Insomma, era una storia finita, quella. Che sembrava proprio finita. Poi un giorno mi arrivò una lettera, me l'aveva scritta Neil O'Connor, quell'irlandese che scherzava in continuazione. Quella volta, però, era una lettera seria. Diceva che il virginian se n'era tornato a pezzi, dalla guerra, l'avevano usato come ospedale viaggiante, e alla fine era così mal ridotto che avevano deciso di buttarlo a fondo.

Avevano sbarcato a Plymouth il poco equipaggio rimasto, l'avevano riempita di dinamite e prima o poi l'avrebbero portata al largo per farla finita: bum, e via. Poi c'era un poscritto: e diceva: "Ce l'hai cento dollari? Giuro che te li restituisco". E sotto, un altro poscritto: e diceva: "Novecento, lui, mica è sceso". Solo quello: "Novecento, lui, mica è sceso".

Io mi rigirai la lettera in mano per dei giorni. Poi presi il treno che andava a Plymouth, andai al porto, cercai il Virginian, lo trovai, diedi un po' di soldi alle guardie che stavano lì, salii sulla nave, la

girai da cima a fondo, scesi alla sala macchine, mi sedetti su una cassa che aveva l'aria di essere piena di dinamite, mi tolsi il cappello, lo posai per terra, e rimasi lì, in silenzio, senza sapere cosa dire/

…Fermo lì a guardarlo, fermo lì a guardarmi/ Dinamite anche sotto il suo culo, dinamite dappertutto / Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento/ Avresti detto che lo sapeva che sarei arrivato, come sapeva sempre le note che avresti suonato e.. / Con quella faccia invecchiata, ma in un modo bello, senza stanchezza/ Niente luce, sulla nave, c'era solo quella che filtrava da fuori, chissà la notte, com'era/ Le mani bianche, la giacca ben abbottonata, le scarpe lucide/ Mica era sceso, lui/ Nella penombra, sembrava un principe/ Mica era sceso, sarebbe saltato insieme a tutto il resto, in mezzo al mare/ Gran finale, con tutti a guardare, dal molo, e da riva, il grande fuoco d'artificio, adieu, giù il sipario, fumo e fiamme, un'onda grande, alla fine/ Danny Boodmann T.D. Lemon/ Novecento/ In quella nave ingoiata dal buio, l'ultimo ricordo di lui è una voce, quasi soltanto, adagio, a parlare/

/

(L'attore si trasforma in Novecento)

/

Brutta quella città… non se ne vedeva la fine…/

La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? /

E il rumore/

Su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c'era problema/

Col mio cappello blu/

Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/

Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/

Primo gradino, secondo/

Non è quel che vidi che mi fermò/

E quel che non vidi/

Puoi capirlo, fratello? è quel che non vidi… lo cercai ma non c'era, in tutta quella sterminata città c'era tutto tranne/

C'era tutto/

Ma non c'era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo/

Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/

Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/

Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/

Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/

Se quella tastiera è infinita, allora/

Su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/

Cristo, ma le vedevi le strade?/

Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/

A scegliere una donna/

Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire/

Tutto quel mondo/

Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce /

E quanto ce n'è/

Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità, solo a pensarla? A viverla. /

Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non più di quelli che Ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.

Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. E un viaggio troppo lungo.

E una donna troppo bella. E un profumo troppo forte. E una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi tornare in-

dietro.

Per favore/

/

Adesso cerca di capire, fratello. Cerca di capire, se poi/

Tutto quel mondo negli occhi/

Terribile ma bello/

Troppo bello/

E la paura che mi riportava indietro/

La nave, di nuovo e per sempre/

Piccola nave/

Quel mondo negli occhi, tutte le notti, di nuovo/

Fantasmi/

Ci puoi morire se li lasci fare/

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