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Алессандро Барикко: Novecento: Un monologo

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"Il mare".

"Il mare?"

"Il mare."

Pensa te. A tutto' potevi pensare, ma non a quello. Non volevo crederci, sapeva di presa per il culo bell'e buona. Non volevo crederci. Era la cazzata del secolo.

"Sono trentadue anni che lo vedi, il mare, Novecento.

"Da qui. Io lo voglio vedere da là. Non è la stessa cosa."

Sant'Iddio. Mi sembrava di parlare con un bambino.

"Va be', aspetta di essere in porto, ti sporgi e lo guardi per bene. E la stessa cosa."

"Non è la stessa cosa."

"E chi te l'ha detto?"

Gliel'aveva detto uno che si chiamava Baster Lynn Baster. Un contadino. Uno di quelli che vivono quarant'anni lavorando come muli e tutto quel che hanno visto è il loro campo e, una o due volte, la città grande, qualche miglio più in là, il giorno della fiera. Solo che poi a lui la siccità aveva portato via tutto, la moglie se n'era andata con un predicatore di non so cosa, e i figli se li era portati via la febbre, tutt'e due. Uno con la buona stella, insomma. Così un giorno aveva preso le sue cose, e aveva fatto tutta l'Inghilterra a piedi per arrivare a Londra. Dato però che non se ne intendeva un granché di strade, invece che arrivare a Londra era finito in un paesino da nulla, dove però se continuavi sulla strada, facevi due curve e giravi dietro a una collina, alla fine, d'improvviso, vedevi il mare. Non l'aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L'aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva: "E come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: 'banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa'".

Lui, Lynn Baster, quella cosa non l'aveva pensata mai. Proprio non gli era mai capitato di pensarla.

Fu come una rivoluzione, nella sua testa.

Forse è che Novecento, anche lui… non gli era mai venuta in mente davvero quella roba, che la vita è immensa. Magari lo sospettava anche, ma nessuno gliel'aveva mai gridato in quel modo. Così se la fece raccontare mille volte, da quel Baster, la storia del mare e tutto il resto, e alla fine decise che doveva provare anche lui. Quando si mise a spiegarmi, ch'aveva l'aria di uno che ti spiega come funziona il motore a scoppio: era scientifico.

"Posso rimanere anche anni, qua sopra, ma il mare non mi dirà mai nulla. Io adesso scendo, vivo sulla terra e della terra per anni, divento uno normale, poi un giorno parto, arrivo su una costa qualsiasi, alzo gli occhi e guardo il mare: è lì, io l'ascolterò gridare."

Scientifico. A me sembrava la cazzata scientifica del secolo. Potevo dirglielo, ma non glielo dissi.

Non era così semplice. Il fatto è che io gli volevo bene, a Novecento, e volevo che scendesse un giorno o l'altro, da lì, e suonasse per la gente della terra, e sposasse una donna simpatica, e avesse dei figli e insomma tutte le cose della vita, che magari non è immensa, però è anche bella, se solo hai un po' di fortuna, e di voglia. Insomma, quella del mare mi sembrava una vera boiata, però se riusciva a portare Novecento giù da lì, per me andava bene. Così alla fine pensai che era meglio così. Gli dissi che il suo ragionamento non faceva una piega. E che ero contento, davvero. E che gli avrei regalato il mio cappotto di cammello, avrebbe fatto un figurone, scendendo giù dalla scaletta, col cappotto cammello.

Lui era anche un po' commosso:

"Però mi verrai a trovare, no? sulla terra…".

Dio, ch'avevo un sasso qui, in gola, come un sasso, mi faceva morire se faceva così, io detesto gli addii, mi misi a ridere meglio che potevo, una cosa penosa, e dissi che certo sarei andato a trovarlo e avremmo fatto correre il suo cane per i campi, e sua moglie avrebbe cucinato il tacchino, e non so che altra stronzata, e lui rideva, e anch'io, ma dentro sapevamo tutt'e due che la verità era un'altra, la verità era che stava per finire tutto, e non c'era niente da fare, doveva succedere e adesso stava succedendo Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento sarebbe sceso dal Virginian, nel porto di New York, un giorno di febbraio. Dopo trentadue anni vissuti sul mare, sarebbe sceso a terra, per vedere il mare.

(Parte una musica tipo vecchia ballata. L'attore scompare nel buio, poi ricompare nei panni di Novecento sulla cima di una scaletta da piroscafo. Cappotto cammello, cappello, una grande valigia. Sta un po' lì, nel vento, immobile, a guardare davanti a sé Guarda New York. Poi scende il primo gradino, il secondo, il terzo. Lì la musica si interrompe di colpo e Novecento si inchioda. L'attore si toglie il cappello e si gira verso il pubblico.

Fu al terzo gradino che si fermò. Di colpo.

"Che è? ha pestato una merda?" disse Neil O'Connor, che era un irlandese che capiva mai un cazzo, però non c'era verso di togliergli il buon umore, mai.

"Avrà dimenticato qualcosa," dissi io.

"Cosa? "

"E che ne so cosa…"

"Forse s'è dimenticato perché sta scendendo."

"Non dire fesserie."

E intanto lui là, fermo, con un piede sul secondo gradino e uno sul terzo. Se ne rimase così per un tempo eterno. Guardava davanti a sé, sembrava che cercasse qualcosa. E alla fine fece una cosa strana.

Si tolse il cappello, allungò la mano oltre il mancorrente della scaletta e lo lasciò cadere giù. Sembrava un uccello stanco, o una frittata blu con le ali. Fece un paio di curve nell'aria e cadde in mare. Galleggiava. Evidentemente era un uccello, non una frittata. Quando rialzammo gli occhi verso la scaletta, vedemmo Novecento, nel suo cappotto cammello, nel mio cappotto cammello, che risaliva quei due gradini, con le spalle al mondo e uno strano sorriso in faccia. Due passi, e sparì dentro la nave.

"Hai visto? è arrivato il nuovo pianista," disse Neil O'Connor.

"Dicono che sia il più grande," dissi io. E non sapevo se ero triste o felice da pazzi.

Cosa aveva visto, da quel maledetto terzo gradino, non me lo volle dire. Quel giorno e poi per i due viaggi che facemmo dopo, Novecento rimase un po' strano, parlava meno del solito, e sembrava molto occupato in qualche sua faccenda personale.

Noi non facevamo domande. Lui faceva finta di niente. Si vedeva che non era proprio tutto normale, ma comunque non ci andava di chiedergli qualcosa. Andò così per qualche mese. Poi un giorno Novecento entrò nella mia cabina e lentamente ma tutto di fila, senza fermarsi, mi disse: "Grazie per il cappotto, mi andava da dio, è stato un peccato, avrei fatto un figurone, ma adesso va tutto molto meglio, è passata, non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più".

Per me, non ero nemmeno sicuro che lo fosse mai stato, infelice. Non era una di quelle persone di cui ti chiedi chissà se è felice quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c'entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto, non contava.

"Non devi pensare che io sia infelice: non lo sarò mai più." Mi lasciò secco, quella frase. Aveva la faccia di uno che non scherzava, quando la disse.

Uno che sapeva benissimo dove stava andando. E che ci sarebbe arrivato. Era come quando si sedeva al pianoforte e attaccava a suonare, non c'erano dubbi nelle sue mani, e i tasti sembravano aspettare quelle note da sempre, sembravano finiti lì per loro, e solo per loro. Sembrava che inventasse lì per lì: ma da qualche parte, nella sua testa, quelle note erano scritte da sempre.

Adesso so che quel giorno Novecento aveva deciso di sedersi davanti ai tasti bianchi e neri della sua vita e di iniziare a suonare una musica assurda e geniale, complicata ma bella, la più grande di tutte.

E che su quella musica avrebbe ballato quel che rimaneva dei suoi anni. E che mai più sarebbe stato infelice.

Io, dal Virginian, ci scesi il 21 agosto 1933. C'ero salito sopra sei anni prima. Ma mi sembrava fosse passata una vita. Non ci scesi per un giorno o per una settimana: ci scesi per sempre. Coi documenti di sbarco, e la paga arretrata, e tutto quanto. Tutto in regola. Avevo chiuso, con l'Oceano.

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