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Roberto Saviano: Gomorra

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Il pentimento di La Torre ha sempre grondato ambiguità secondo i magistrati, non è riuscito a rinunciare al suo ruolo di boss. E che le rivelazioni da pentito siano state un'estensione del suo potere, lo mostra una lettera che Augusto fece recapitare a suo zio dove lo rassicurava di averlo "salvato" da ogni coinvolgimento nelle vicende del clan, ma da abile narratore non risparmia una chiara minaccia a lui e altri due suoi parenti, scongiurando l'ipotesi che possa nascere a Mon-dragone un'alleanza contro il boss:

"Tuo genero e suo padre si sentono protetti da persone che portano a spasso il loro cadavere."

Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila chiedeva anche danaro, aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste che consegnava sempre al suo autista Pietro Scuttini, e alla madre. Quelle richieste, secondo la magistratura, erano estorsioni. Un biglietto dai toni cortesi, indirizzato al titolare di uno dei più grandi caseifici della costa domizia, è la prova che Augusto continuava a ritenerlo a sua disposizione.

"Caro Peppe ti chiedo un grosso favore perché sto rovinato, se vuoi aiutarmi, ma te lo chiedo soltanto in nome della nostra vecchia amicizia e non per altri motivi e anche se mi dirai di no, stai tranquillo ti salverò sempre! Mi servono urgentemente diecimila euro e poi devi dirmi se puoi darmi mille euro al mese, mi servono per vivere con i miei figli…"

Il tenore di vita a cui era abituata la famiglia La Torre andava ben oltre l'assistenza economica che lo Stato garantisce ai collaboratori di giustizia. Riuscii a comprendere il giro d'affari della famiglia solo dopo aver letto le carte del megasequestro eseguito su disposizione della magistratura di Santa Maria Capua Vetere nel 1992. Sequestrarono beni immobili per il valore attuale di circa duecentotrenta milioni di euro, diciannove imprese per un valore di trecentoventitré milioni di euro, ai quali si aggiunsero altri centotrentatré milioni di euro relativi agli impianti di lavorazione e ai macchinari. Si trattava di numerosi opifici, ubicati tra Napoli e Gaeta, lungo la zona domizia, tra i quali un caseificio, uno zuccherificio, quattro supermercati, nove ville sul mare, fabbricati con annessi terreni, oltre a vetture di grossa cilindrata e motociclette. Ogni azienda aveva circa sessanta dipendenti. I giudici disposero inoltre il sequestro della società che aveva in appalto la raccolta dei rifiuti nel comune di Mon-dragone. Fu un'operazione gigantesca che annullava un potere economico esponenziale, eppure microscopico rispetto al reale giro d'affari del clan. Sequestrarono anche una villa immensa, una villa la cui fama era arrivata anche ad Aberdeen. Quattro livelli a picco sul mare, piscina arredata con un labirinto subacqueo, costruita in zona Ariana di Gaeta, progettata come la villa di Tiberio, non il capostipite del clan di Mondragone, ma l'imperatore che si era ritirato a governare a Capri. Non sono mai riuscito a entrare in questa villa e la leggenda e le carte giudiziarie sono state le lenti attraverso cui ho saputo dell'esistenza di questo mausoleo imperiale, posto a guardia delle proprietà italiane del clan. La zona costiera avrebbe potuto essere una sorta di infinito spazio sul mare, capace di concedere ogni sorta di fantasia all'architettura. Invece col tempo la costa casertana è divenuta un'accozzaglia di case e villette costruite velocemente per invogliare un turismo enorme dal basso Lazio a Napoli. Nessun piano regolatore sulla costa domizia, nessuna licenza. Allora le villette da Castelvolturno a Mondragone sono divenute i nuovi alloggi dove stivare decine di africani e i parchi progettati, le terre che dovevano ospitare nuovi agglomerati di villette e palazzotti per vacanze e turismo sono diventate discariche incontrollate. Nessun depuratore posseduto dai paesi costieri. Un mare marroncino bagna ormai spiagge mischiate a monnezza. In una manciata di anni, ogni lontanissima penombra di bellezza è stata eliminata. D'estate alcuni locali domiziani divenivano veri e propri bordelli, alcuni miei amici si preparavano alla caccia serale mostrando il portafogli vuoto. Non di danaro, ma del francobollo di lamina con anima circolare, ossia del preservativo. Mostravano che andare a Mondragone a scopare senza preservativo era cosa tranquilla: "Stasera si fa senza!".

Il preservativo mondragonese era Augusto La Torre. Il boss aveva deciso di vegliare anche sulla salute dei suoi sudditi. Mondragone divenne una sorta di tempio per la sicurezza totale dalla più temuta delle malattie infettive. Mentre il mondo s'appestava di HIV, il nord del casertano era strettamente sotto controllo. Il clan era attentissimo e così teneva sott'osservazione le analisi di tutti. Per quel che poteva, aveva l'elenco completo dei malati, il territorio non doveva infettarsi. Così seppero subito che un uomo vicino ad Augusto, Fernando Brodella si era beccato I'HIV. Poteva essere rischioso, frequentava le ragazze del paese. Non pensarono di affidarlo a qualche buon medico né di pagargli delle cure adeguate: non fecero come il clan Bidognetti che pagava le operazioni nelle migliori cliniche europee ai propri affiliati, affidandoli ai medici più abili. Brodella fu avvicinato e ucciso a sangue freddo. Eliminare i malati per bloccare l'epidemia: era questo l'ordine del clan. Una malattia infettiva e per di più trasmessa con l'atto meno controllabile, il sesso, poteva essere fermata solo arginando per sempre gli infetti. I malati non avrebbero contagiato nessuno con certezza solo se gli si toglieva la possibilità di vivere.

Anche gli investimenti dei propri capitali in Campania dovevano essere sicuri. Avevano infatti comprato una villa che si trova nel territorio di Anacapri, una struttura che ospitava la stazione locale dei carabinieri. Ricevendo il fitto dai carabinieri erano certi di non incorrere in spiacevoli mancanze. I La Torre, quando capirono che la villa avrebbe reso di più col turismo, sfrattarono i carabinieri e frazionando la struttura in sei appartamenti con giardino e posto auto, la trasformarono in un centro turistico, prima che l'Antimafia arrivasse a sequestrare tutto. Investimenti lindi, sicuri, senza nessun azzardo speculativo sospetto.

Dopo il pentimento di Augusto, il nuovo boss Luigi Fragno-li sempre fedelissimo dei La Torre iniziò ad avere problemi con alcuni affiliati come Giuseppe Mancone detto "Rambo". Vaga somiglianza con Stallone, corpo pompato in palestra, stava mettendo su una piazza di spaccio che in breve l'avrebbe portato a essere un riferimento importante, e da lì a poco poteva scalciare i vecchi boss ormai con un carisma in frantumi dopo il pentimento. Secondo la Procura Antimafia, i clan mondrago-nesi avevano chiesto alla famiglia Birra di Ercolano di appaltargli alcuni killer. Così, per eliminare "Rambo" giungono a Mondragone, nell'agosto 2003, due ercolanesi. Arrivarono su quegli enormi scooteroni, poco agevoli ma talmente minacciosi d'aspetto che non si può resistere a guidarli per un agguato. Non avevano mai messo piede a Mondragone, ma riuscirono facilmente a individuare che la persona da uccidere era lì al Roxy Bar, come sempre. Lo scooter si fermò. Scese un ragazzo che a passo sicuro si avvicinò a "Rambo", gli scaricò addosso un intero caricatore e poi ritornò in sella allo scooter:

"Tutto a posto? Hai fatto?" ,

"Sì, ho fatto vai vai vai…"

Vicino al bar c'era un gruppo di ragazze, si stavano organizzando per il ferragosto. Appena videro arrivare il ragazzo di corsa capirono subito, non avevano confuso il rumore di un'automatica con quello dei petardi. Tutte si sdraiarono con il viso per terra, temendo di essere viste dal killer e quindi poter diventare dei testimoni. Ma una non abbassò lo sguardo. Una di loro continuò a fissare il killer senza abbassare gli occhi, senza schiacciare il suo seno sul catrame o coprirsi il viso con le mani. Era una maestra d'asilo di trentacinque anni. La donna testimoniò, fece i riconoscimenti, denunciò l'agguato. Nella molteplicità di motivi per cui poteva tacere, far finta di nulla, tornare a casa e vivere come sempre c'era la paura, il terrore delle intimidazioni e ancor più il senso dell'inutile, far arrestare un killer, uno dei tanti. E invece la maestra mondra-gonese trovò nella cianfrusaglia di ragioni per tacere un'unica motivazione, quella della verità. Una verità che ha il sapore della naturalezza, come un gesto solito, normale, ovvio, necessario come il respiro stesso. Denunciò senza chiedere nulla in cambio. Non pretese stipendi, scorta, non impose il prezzo alla sua parola. Svelò ciò che aveva visto, descrisse il viso del killer, gli zigomi spigolosi, le sopracciglia folte. Dopo aver sparato lo scooter fuggì per il paese sbagliando strada più volte, infilandosi in vicoli ciechi, tornando indietro. Piuttosto che killer sembravano turisti schizofrenici. Al processo scaturito dalle testimonianze della maestra venne condannato all'ergastolo Salvatore Cefariello, ventiquattro anni, killer considerato al soldo dei clan ercolanesi. Il magistrato che ha raccolto la testimonianza della maestra, la definì "una rosa nel deserto" spuntata in una terra dove la verità è sempre la versione dei potenti, dove viene declinata raramente e pronunciata come merce rara da barattare per qualche profitto.

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