Dino Buzzati - Sessanta racconti

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Sessanta racconti: краткое содержание, описание и аннотация

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Premio Strega 1958

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Portato nel gorgo della folla, ben presto, senza quasi accorgersene, Claudio Cottes si ritrovò nella platea, nel pieno fulgore delle luci. Erano le nove meno dieci, il teatro era già gremito. Cottes guardò intorno, estasiato come un ragazzetto. Avevano un bel passare gli anni, la prima sensazione ogni volta che lui entrava in quella sala, si manteneva pura e vivida, come dinanzi ai grandi spettacoli della natura. Molti altri, con cui andava scambiando fuggevoli segni di saluto, provavano lo stesso, lo sapeva. Proprio di qui nasceva una speciale fratellanza, una sorta di innocua massoneria che agli estranei, a chi non vi partecipava, doveva forse sembrare un po' ridicola. Chi mancava? Gli sguardi esperti di Cottes ispezionarono, settore per settore, il grande pubblico, trovando tutti a posto. Accanto a lui sedeva il celebrato pediatra Ferro che avrebbe lasciato morire di crup migliaia di piccoli clienti pur di non perdere una " prima " (il pensiero suggerì anzi a Cottes un grazioso gioco di parole con allusione a Erode e ai bimbi galilei, che si promise di utilizare in seguito). A destra, la coppia ch'egli aveva definito dei " parenti poveri ", marito e moglie già attempati, con abiti da sera sì, ma lisi e sempre quelli, che non mancavano a nessuna " prima ", applaudivano con la stessa foga qualsiasi cosa, non parlavano con nessuno, non salutavano nessuno, non scambiavano neanche l'un l'altro una parola; tanto che tutti li consideravano claqueurs di lusso, dislocati nella parte più aristocratica della platea per dare il via ai battimani. Più in là l'ottimo professore Schiassi, economista, famoso per avere seguito anni e anni Toscanini dovunque si recasse a dar concerti; e siccome allora era a corto di denari, viaggiava in bicicletta, dormiva nei giardini e mangiava le provviste portate nel sacco da montagna; parenti e amici lo consideravano un po' matto ma lo amavano ugualmente. Ecco l'ing. Beccian, idraulico, ricco forse a miliardi, melomane umile e infelice, che da un mese in qua, essendo stato nominato consigliere alla Società del Quartetto (per cui aveva palpitato da decenni come un innamorato e fatto indicibili sforzi diplomatici) era all'improvviso montato, in casa e in ditta, a un tale grado di superbia da diventare insopportabile; e trinciava giudizi su Purcell e D'Indy, lui che prima non osava rivolgere la parola all'ultimo dei contrabbassi. Ecco, col minuscolo marito, la bellissima Maddi Canestrini, ex-commessa, che ad ogni nuova opera si faceva catechizzare nel pomeriggio da un docente di storia della musica per non fare brutte figure; il suo celebre petto mai si era potuto ammirare in tanta completezza e veramente risplendeva tra la folla, disse uno, come il faro al Capo di Buona Speranza. Ecco la principessa Wurz-Montague, dal gran naso d'uccello, venuta apposta dall'Egitto con le quattro figlie. Ecco, nel più basso palco di proscenio, luccicare i cupidi occhi del barbuto conte Noce, assiduo alle sole opere che promettessero la comparsa di ballerine; e infaticabile, a memoria d'uomo, in tale circostanza, nell'esprimere la soddisfazione con la invariata formula: " Ah, che personale! Ah, che polpe! ". Ecco in un palco della prima fila l'intera tribù dei Salcetti, vecchia famiglia milanese, che si vantava di non aver mai perso una " prima " della Scala a partire dal 1837. E in quarta fila, quasi sul proscenio, le povere marchese Marizzoni, madre, zia e figlia nubile, sbircianti con amarezza al sontuoso palco 14 di seconda fila, loro feudo, dovuto quest'anno abbandonare per ristrettezze: adattatesi a un ottavo di abbonamento da consumare lassù, tra i piccioni, si tenevano rigide e compassate come upupe, cercando di passare inosservate. Intanto, vigilato da un aiutante di campo in uniforme, un pingue principe indiano non bene identificato stava addormentandosi e al ritmo del respiro l'aigrette del turbante oscillava su e giù, sporgendo fuor del palco. Poco lontana, con un vestito color fiamma da sbalordire, aperto davanti fino alla cintura, le braccia nude con attorcigliato a biscia un cordone nero, stava in piedi, proprio a farsi ammirare, una impressionante donna sui trent'anni; un'attrice di Hollywood dicevano, ma i pareri sul nome eran discordi. E accanto le sedeva, immoto, un bambino bellissimo e spaventosamente pallido che pareva dovesse morire da un momento all'altro. In quanto ai due circoli rivali della nobiltà e della ricca borghesia avevano entrambi rinunciato alla elegante consuetudine di lasciare le barcacce semivuote. I " signorini meglio provveduti della Lombardia vi si congestionavano in serrati grappoli di volti abbronzati, di camicie a specchio, di marsine da grande firma. A confermare il successo eccezionale della serata si notava poi, contro il solito, un forte numero di donne belle con décolletés estremamente impegnativi. Il Cottes si propose di ripetere, durante un intervallo, una distrazione che usava concedersi nei verdi anni: di contemplare cioè la profondità di tali prospettive dall'alto in basso. E in cuor suo scelse, quale osservatorio, il palco in quarta fila dove scintillavano gli smeraldi giganteschi di Flavia Sol, ottima contralto e buona amica.

A tale frivolo splendore un solo palco contrastava, simile a un occhio tenebroso e fisso in mezzo a un tremolio di fiori. Era in terza fila e vi stavano, due seduti ai lati e il terzo in piedi, tre signori dai trenta ai quarant'anni, con vestiti neri a doppio petto, cravatte scure, volti magri e tetri. Immobili, atoni, stranieri a tutto ciò che succedeva intorno, volgevano con ostinazione gli sguardi al sipario, come se fosse l'unica cosa degna d'interesse: parevano non spettatori venuti per godere, ma giudici di un sinistro tribunale che, data la sentenza, ne aspettassero l'esecuzione; e nell'attesa preferissero non guardare i condannati, non già per pietà, bensì a motivo della repulsione. Più di uno si trattenne a osservarli, provandone disagio. Chi erano? Come si permettevano di contristare la Scala col loro aspetto funerario? Era una sfida? E a che scopo? Anche il maestro Cottes, come li notò, rimase un po' perplesso. Una maligna stonatura. E n'ebbe un oscuro senso di timore, tanto che non osò alzare verso di loro il suo binocolo. In quel mentre si spensero le luci. Spiccò nel buio il bianco riverbero che saliva dall'orchestra e vi sorse la scarna figura di Max Nieberl, direttore, lo specialista di musiche moderne.

Se mai nella sala si trovavano quella sera, degli uomini, timorosi o inquieti, certo la musica di Grossgemuth, le smanie del Tetrarca, gli impetuosi e quasi ininterrotti interventi del coro appollaiato come un branco di corvi su una specie di rupe conica (le sue invettive piombavano come cateratte sul pubblico, facendolo spesso sobbalzare) le scene allucinate, non erano certo fatte per rasserenarli. Sì, c'era dell'energia, ma a quale prezzo. Strumenti, suonatori, coro, cantanti, massa di ballo (che era di scena quasi sempre per minuziose esplicazioni mimiche, mentre i protagonisti si muovevano di rado) direttore e perfino spettatori erano sottoposti al massimo sforzo che si potesse pretendere da loro. Al termine della prima parte l'applauso esplose non tanto a scopo di consenso quanto per il comune bisogno fisico di sfogare la tensione. La meravigliosa sala vibrava tutta. Alla terza chiamata comparve tra gli interpreti la torreggiante sagoma di Grossgemuth il quale rispondeva con brevissimi e quasi stentati sorrisi, piegando ritmicamente il capo. Claudio Cottes si ricordò dei tre lugubri signori e, continuando a battere le mani, alzò gli occhi a guardarli: erano ancora là, immobili e inerti come prima, non si erano spostati di un millimetro, non applaudivano, non parlavano, non sembravano neanche persone vive. Che fossero dei manichini? Restarono nella stessa posizione anche quando la maggior parte della gente si fu riversata nel ridotto.

Appunto durante il primo intervallo le voci che fuori, nella città, stesse covando una specie di rivoluzione, si fecero strada in mezzo al pubblico. Anche qui esse procedettero in sordina, a poco a poco, grazie ad un istintivo ritegno della gente. Né riuscirono certo a sopraffare le accese discussioni sull'opera di Grossgemuth a cui il vecchio Cottes prese parte, senza esprimere giudizi, con scherzosi commenti in meneghino. Suonò infine il campanello per annunciare la fine dell'entr'acte. Avviatosi giù per la scala dalla parte del Museo teatrale, Cottes si trovò fianco a fianco con un conoscente di cui non ricordava il nome e il quale, accortosi di lui, gli sorrise con espressione astuta.

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