Dino Buzzati - Sessanta racconti

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Sessanta racconti: краткое содержание, описание и аннотация

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Premio Strega 1958

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Grossgemuth aveva, com'era prevedibile, smentito le insinuazioni con poche ma secche parole: se mai, la Strage degli innocenti doveva essere considerata una testimonianza di fede cristiana e niente più. Ma alla première di Parigi c'era stata battaglia e a lungo i giornali ne avevano disputato in termini di fuoco e di veleno.

Si aggiunga la curiosità per la difficile realizzazione musicale, L'aspettativa per le scene – che si annunciavano pazzesche – e per le coreografie ideate dal famoso Johan Monclar, fatto venire apposta da Bruxelles. Da una settimana, per seguire le prove, Grossgemuth si trovava a Milano con la moglie e la segretaria; e naturalmente avrebbe assistito alla rappresentazione. Tutto questo dava insomma allo spettacolo un tono di eccezione. Nell'intera stagione non c'era stata anzi una soirée così importante. Per l'occasione i maggiori critici e musicisti d'Italia si erano trasferiti a Milano, da Parigi era giunto un gruppetto di fanatici grossgemuthiani. E il questore aveva previsto uno straordinario servizio d'ordine nell'eventualità che si scatenasse la burrasca.

Vari funzionari e molti agenti di polizia, in un primo tempo destinati alla Scala, furono invece impiegati altrove. Una diversa e ben più preoccupante minaccia si era delineata all'improvviso nel tardo pomeriggio. Varie segnalazioni annunciavanO imminente, forse per la notte stessa, un'azione di forza da parte della comunità dei Morzi. I capi di questo grande movimento non avevano mai fatto mistero che il loro ultimo scopo era di rovesciare l'ordine costituito e di instaurare la " nuova giustizia ". Sintomi di agitazione c'erano già stati nei mesi precedenti. Adesso era in corso una offensiva dei Morzi contro la legge, che stava per essere approvata al Parlamento, sulla migrazione interna. Il pretesto poteva essere buono per un tentativo a fondo.

Durante tutta la giornata gruppetti dall'aspetto deciso e quasi provocante si erano notati nelle piazze e nelle vie del centro. Non avevano né distintivi, né bandiere, né cartelli, non erano inquadrati, non tentavano di formare dei cortei. Ma era fin troppo facile indovinare di che razza fossero. Niente di strano, a dir la verità, perché manifestazioni come questa, innocue e in sordina, si ripetevano da anni con frequenza. E anche stavolta la forza pubblica aveva lasciato fare. Le informazioni riservate della Prefettura lasciavano temere invece, entro poche ore, una manovra in grande stile per la conquista del potere. Roma era stata subito avvertita, polizia e carabinieri messi in stato di emergenza, anche i reparti dell'esercito stavano sul chi vive. Non si poteva però escludere che fosse un falso allarme. Già altre volte era successo. Gli stessi Morzi diffondevano voci del genere, era un loro gioco favorito.

Una vaga e inespressa sensazione di pericolo, come avviene, si era tuttavia diffusa per la città. Non c'era un fatto concreto che la giustificasse, non c'erano neppure dicerie che si riferissero a qualcosa di preciso, nessuno sapeva nulla, eppure nell'aria si era fatta una sensibile tensione. Usciti dagli uffici, molti borghesi quella sera affrettavano il passo verso casa, scrutando con apprensione la prospettiva delle strade se mai dal fondo avanzasse una massa nereggiante a sbarrare la via. Non era la prima volta che la tranquillità della cittadinanza veniva minacciata: parecchi cominciavano a farci l'abitudine. Anche per questo la maggioranza continuò a badare alle sue faccende come se fosse una sera qualsiasi fra le tante. Singolare poi una circostanza che fu notata da parecchi: benché, filtrato attraverso chissà quali indiscrezioni, un presentimento di cose grosse avesse preso a serpeggiare qua e là, nessuno ne parlava. In un tono magari differente dal consueto, con sottintesi ermetici, ma si facevano sempre i soliti discorsi della sera, ci si diceva ciao e arrivederci senza postille, si fissavano appuntamenti per l'indomani, si preferiva insomma non accennare apertamente a ciò che in un modo o nell'altro riempiva gli animi, quasi che parlarne potesse rompere l'incanto, menare gramo, chiamare la sventura; così come sulle navi in guerra è legge non enunciare neppure a titolo di scherzo ipotesi di siluramenti o di colpi a bordo.

Tra coloro che più di ogni altro ignoravano tali preoccupazioni era senza dubbio il maestro Claudio Cottes, uomo candido e per alcuni versi ottuso, per il quale nulla esisteva al mondo fuori della musica. Romeno di nascita (sebbene pochi lo sapessero) si era stabilito in Italia giovanissimo, negli anni d'oro, al principio del secolo, quando la sua prodigiosa precocità di virtuoso lo aveva reso celebre in breve tempo. Spentisi nel pubblico i primi fanatismi, egli era pur sempre rimasto un magnifico pianista, forse più delicato che potente, che periodicamente faceva il giro delle maggiori città europee per cicli di concerti, invitato dai più noti enti filarmonici; questo fin verso il '40. Soprattutto gli riusciva caro ricordare i successi ottenuti, più di una volta, suonando nelle stagioni sinfoniche della Scala. Ottenuta la cittadinanza italiana, aveva sposato una milanese e occupato con molta probità, al Conservatorio, la cattedra di pianoforte nel corso superiore. Ormai si considerava milanese e bisogna ammettere che pochi, nell'ambiente, sapessero parlare in dialetto meglio di lui. Benché in pensione – gli restava solo l'incarico onorifico di commissario in alcune sessioni di esami al Conservatorio – Cottes continuava a vivere solo per la musica, non frequentava che musicisti e musicomani, non mancava a un concerto e seguiva, con una specie di trepidante timidezza, le affermazioni del figlio Arduino, ventiduenne, compositore di ingegno promettente. Diciamo timidezza, perché Arduino era un ragazzo molto chiuso in sé, avarissimo di confidenze ed espansioni, di una sensibilità perfino esagerata. Da che era rimasto vedovo, il vecchio Cottes si trovava, per così dire, disarmato e impacciato di fronte a lui. Non lo capiva. Non sapeva che vita conducesse. Si rendeva conto che i propri consigli, anche in materia musicale, cadevano nel vuoto.

Cottes non era mai stato un gran bell'uomo. Adesso, a 67 anni, era un bel vecchio, di quelli che si usano chiamar decorativi. Con l'età una vaga assomiglianza a Beethoven si era accentuata; compiacendosene forse senza seperlo, egli curava con amore i capelli bianchi, lunghi e vaporosi che gli facevano una corona molto " artistica ". Un Beethoven non tragico, anzi bonario, pronto al sorriso, socievole, disposto a trovare il bene quasi dovunque; " quasi ", perché in fatto di pianisti era ben raro ch'egli non torcesse il naso. Era l'unica sua debolezza e gliela si perdonava volentieri. " Ebbè, maestro? " gli chiedevano gli amici, durante gli intervalli. " Tutt ben per mi. Ma se ghe fuss staa el Beethoven? " rispondeva; oppure: " Perché? Lu l'ha minga sentì? El s'è indormentaa? " o analoghe facili facezie di vecchio stampo, suonassero pure Backhaus, Cortot, o Gieseking.

Questa naturale bonomia – egli non era affatto invelenito di trovarsi escluso, a causa dell'età, dall'attiva vita artistica – lo rendeva simpatico a tutti quanti e gli assicurava, da parte della direzione della Scala, un trattamento di riguardo. Nella stagione lirica non è mai questione di pianisti e la presenza in platea del buon Cottes, nelle serate un po' difficili, costituiva un sicuro piccolo nucleo di ottimismo. Per lo meno sui suoi personali battimani si poteva contare come regola; e l'esempio di un concertista già famoso era presumibile inducesse molti dissenzienti a moderarsi, gli indecisi ad approvare, i tepidi a un consenso più manifesto. Ciò senza contare il suo aspetto molto " scaligero " e le passate benemerenze di pianista. Il suo nome quindi figurava nella segreta e avara lista degli " abbonati perpetui non paganti ". Al mattino di ogni giorno di première, la busta col biglietto per una poltrona compariva immancabilmente nella cassetta della sua posta, alla portineria di via della Passione, 7. Solo per le " prime " che si prevedevano povere d'incassi, le poltrone erano due, una per lui e l'altra per il figlio. Del resto Arduino non ci teneva; preferiva arrangiarsi da solo, con gli amici, assistendo alle prove generali dove non c'è l'obbligo di andar vestiti bene.

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