Grazia Deledda - Canne al vento

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Allora Efix fece salire i compagni fino alla chiesetta davanti alla quale solo pochi giovani si aggrappavano alla roccia per guardare le corse dei barberi a mezza costa. Il vento pareva portarsi via lungo il sentiero laggiù, i cavalli lunghi montati da paesani incappucciati.

Efix fece sedere i ciechi contro il muro ed entrò nella chiesetta avanzandosi in punta di piedi fino ai gradini dell’altare ove don Predu inginocchiato immobile pregava col viso sollevato, i capelli azzurrognoli nella penombra dorata dai ceri, una falda rossa del gabbano rivoltata, lo sprone al piede, simile in tutto ai Baroni in pellegrinaggio quali il servo li aveva veduti dipinti in qualche antico quadro della Basilica.

Pregava assorto, ma quando Efix gli ebbe toccato lievemente il cappotto si volse dapprima sorpreso, poi violento, senza riconoscere il mendicante.

«Al diavolo! Neanche qui lasciate in pace?»

«Don Predu, padrone mio! Sono Efix, non mi riconosce?»

Don Predu balzò sollevando le falde del gabbano quasi volesse abbracciare il suo servo: e si guardarono come due vecchi amici.

«Ebbene? Ebbene?»

«Ebbene?»

«Sì», disse don Predu riprendendosi per il primo, «Giacinto mi ha raccontato le tue prodezze, babbeo. E dunque, ti sei messo a fare un mestiere facile, poltronaccio! Bel mestiere, sì! Ecco, prendi!»

Gli porse una moneta, ma Efix lo guardava negli occhi coi suoi occhi di cane fedele e sospirava senza offendersi.

«Don Predu, padrone mio, mi dia notizie delle mie dame.»

«Le tue dame? Chi le vede? Stanno chiuse nella loro tana come faine.»

«E Giacinto?»

«l’ho veduto a Nuoro, quel morto di fame. Perché non l’hai preso con te a chiedere l’elemosina? E adesso, sai cosa fa? Sposa quell’altra morta di fame, Grixenda, sì, stupido!»

«È bene: lo aveva promesso», disse Efix, e di nuovo si sentì pieno di gioia. «Ecco fatta la grazia che lei chiedeva, padrone mio», pensava, e sorrideva agli improperi che don Predu, pentito del suo primo impeto di benevolenza, gli rivolgeva trattandolo da mendicante quale era.

Dopo la Festa di San Cosma e Damiano di Mamojada, Efix e i ciechi andarono a Bitti per la Madonna del Miracolo. Prima di arrivare fecero tappa sopra Orune, ma sebbene stanco Efix non s’addormentò per paura che gli rubassero la bisaccia col gruzzolo raccolto nelle ultime feste. Pregava, tranquillo, socchiudendo ogni tanto gli occhi per guardare i suoi compagni addormentati sotto una quercia.

Era notte ancora, ma un brivido di luce passava ad Oriente fra i monti che si aprivano verso il mare: l’alba si svegliava laggiù. Ed ecco Efix, vinto dal sonno, crede di non poter più sollevare le palpebre e di sognare: vede il vecchio cieco mettersi a sedere, protendersi in ascolto, appoggiare la mano al tronco della quercia, alzarsi e dopo un momento di esitazione accostarsi a lui e con la mano adunca tirar su la bisaccia come pescandola nell’ombra.

Egli non si muove, non parla: e il vecchio se ne va, piano piano, su fra le macchie e le pietre, senza voltarsi, grande e nero sullo sfondo azzurro della montagna.

Solo quando non lo vide più s’accorse di non aver sognato, e balzò in piedi, ma gli parve che una mano lo tirasse giù costringendolo a sedersi di nuovo, a stare immobile. E a poco a poco alla sorpresa seguì un impeto di gioia, un desiderio di ridere: e rise, e tutto intorno il cielo si colorì di azzurro e di rosa, e le cinzie cantarono fra le macchie.

«Ecco», egli pensava. «È Dio che mi ha liberato di uno de’ miei compagni. Oh che peso mi ha tolto!»

Svegliò l’altro dicendogli dell’accaduto.

«Lo vedi? Efix, adesso sei convinto? Io lo sapevo, che fingeva. Non lo dissi subito? E tu te lo sei portato addietro, tu mi hai tormentato giorno e notte con lui. Adesso andremo a denunziarlo: lo cercheremo, gli pesteremo le ossa.»

Efix sorrideva. Durante la festa fu quasi felice. Una folla com’egli non l’aveva ancora veduta riempiva la chiesa. il campo attorno, il sentiero che conduceva al paese. Una processione s’aggirava continuamente attorno al santuario, come un serpente rosso e bianco, giallo e nero: gli stendardi sventolavano simili a grandi farfalle, e canti corali, tintinnii di cavalli bardati per la corsa, grida di gioia si univano alle cantilene gravi dei pellegrini. Passavano donne coi capelli neri sciolti giù per le spalle come veli di lutto; seguivano uomini a capo scoperto, con un cero in mano, scalzi, polverosi come arrivassero dall’altra estremità del mondo: tutti avevano gli occhi pieni di domande e di speranza.

E i cavalli pazienti salivano su per la strada carichi di gioia o di dolore: li cavalcavano giovani dal viso fiammante, gonfio di sangue, fanciulle pallide che nascondevano la passione come le brage sotto la cenere, e infermi, pazzi, indemoniati, tutti avevano gli occhi pieni di vita e di morte.

Efix s’era messo un po’ discosto dalla chiesa, in un posto ove non molta gente passava. Il cieco non finiva di brontolare, fra una lamentazione e l’altra, e aveva un viso cupo, minaccioso.

Verso sera – la raccolta era stata scarsa – diede sfogo alla sua ira, accusando Efix di aver ammazzato l’altro compagno per liberarsene e tenersi i denari.

Efix sorrideva.

«Vieni», disse, prendendolo per mano, e dopo aver camminato un poco: «senti?».

Il cieco sentiva la voce dell’altro compagno, che lì davanti a loro domandava l’elemosina.

«Adesso non farete come l’altra volta», disse Efix. «Se vi azzuffate e vi arrestano, io, in verità, me ne lavo le mani.»

Allora il cieco vero si chinò sul cieco finto, e gli chiese a denti stretti, sottovoce:

«Perché hai fatto questo, fariseo?».

«Perché mi pare e piace.»

Efix sorrideva. Il cieco «vedeva» questo sorriso e se ne esasperava: tutta la sua ira contro il compagno ladro si riversò sul compagno buono.

«Io non voglio più venire con te: piuttosto mi butto per terra e mi lascio morire. Tu sei uno stupido, un buono a niente: tu vieni con me per divertirti e tormentarmi. Va’ e impiccati, va’ al più profondo dell’inferno.»

«Tu parli così perché sai che non ti abbandono», disse Efix. «Tu sebbene cieco conosci me, ed io non conosco te sebbene ci veda. Ma se tu credi di poterti trovare un altro compagno fa’ pure. Ti aiuterò.»

Il cieco finto ascoltava, con la bisaccia rubata stretta a se. Afferrò la mano di Istène e gli disse:

«E rimani con me, diavolo!».

Stettero così, con le mani unite, come Efix li aveva veduti uscire dalla caserma di Fonni, e pareva aspettassero ch’egli parlasse, sfidandolo un poco: trasse quindi l’involtino delle monete raccolte in quel giorno, e dopo averlo fatto dondolare davanti a loro, guardandoli e sorridendo, lo lasciò cadere in mano al cieco vero e se ne andò.

Libero! Ma aveva l’impressione fisica di tirarsi ancora addietro i compagni, e si dava pensiero di loro.

Camminò tutta la notte e tutto il giorno seguente, giù lungo la vallata dell’Isalle, finché arrivò al mare. Là si gettò a terra, fra due macchie di filirea, e gli parve d’esser tornato al suo paese dopo aver compiuto il giro del mondo.

Ma nel sonno rivedeva il cieco, curvo su se stesso, con le labbra livide semiaperte sui denti ferini, e gli sembrava che lo deridesse e lo compiangesse.

«Tu credi d’essere tornato e di riposarti. Vedrai, Efix; adesso comincia davvero il tuo cammino.»

A misura che s’avvicinava al poderetto, risalendo lo stradone, sentiva un lamento di fisarmonica che gli pareva un’illusione delle sue orecchie abituate ai suoni delle feste.

Tante cose lontane gli tornarono in mente: e tutte le foglie si agitavano intorno per salutarlo. Ecco la siepe, ecco il fiume, la collina, la capanna. Egli non era commosso, ma quel lamento dolce, velato, che pareva salire dalla quiete dell’acqua verdastra, lo attirava come un richiamo.

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