Quando Donna Prima gli spiegò che si trattava di quaranta generali, il povero Barone non riusciva a darsi pace, ma in fondo si sentiva orgoglioso della propria forza.
Il Principe Limone, che aveva finito di prendere il bagno nella sua tenda proprio in quel momento, nel costatare le perdite del suo esercito credette che il nemico avesse fatto una sortita e fu molto contrariato quando gli fecero osservare che il disastro era stato prodotto da un alleato pieno di buone intenzioni.

— Io non ho firmato alleanze con nessuno. Le mie guerre le combatto da solo, — disse sdegnosamente. E radunate le truppe che gli restavano — tra generali, soldati e generi diversi una trentina di uomini — fece questo discorso:
— Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.
I Principi non apprezzano l'amicizia. Così riescono sempre ad avere amici pericolosi, e allora si consolano citando proverbi che non hanno né capo né coda.
Dopo un quarto d'ora fu lanciato un secondo attacco. Dieci uomini scelti marciarono di corsa su per la salita, lanciando urla selvagge per spaventare almeno i bambini e le donne che si trovavano tra gli assediati. Essi furono accolti con molta cortesia, anzi, con troppa. Cipollino aveva fatto applicare potenti pompe da incendio ai tini più panciuti della cantina. Quando gli assaltatori furono a tiro ordinò:
— Vino!
— Avrebbe dovuto ordinare fuoco ! — osserveranno i soliti critici militari; ma quelle erano pompe per spegnere il fuoco, non per accenderlo.
Gli assaltatori furono innaffiati dai robusti getti rossi e profumati. Il vino entrava loro nella bocca e nel naso, minacciando di affogarli: era vino buono, ma il troppo stroppia.
Fecero dietro-front piuttosto a malincuore e volarono giù per la discesa. Giunsero all'accampamento completamente ubriachi, con grande scandalo delle Contesse.
Figuratevi poi gli strilli del Principe:
— Vergogna, bere vino rosso a digiuno! Ecco altri dieci uomini fuori combattimento.
I dieci guerrieri, infatti, uno dopo l'altro, si sdraiarono ai piedi di Sua Altezza e cominciarono a russare della grossa.
La situazione diventava di minuto in minuto più tragica. Pomodoro si metteva le mani nei capelli e tempestava Mister Carotino:
— Consigliate qualche cosa! Siete, sì o no, il Consigliere Militare Straniero?
Al Castello invece, come potete immaginare, l'entusiasmo era al colmo.
Una buona metà dei nemici era ormai liquidata. Forse fra poco si sarebbe vista spuntare una bandiera bianca laggiù, tra i due pilastri rossi del cancello.
Sor Pisello cambia bandiera e Cipollino torna in galera
No, è inutile che io tenti di ingannarvi: tra i pilastri del cancello non spuntò mai la bandiera bianca. Spuntò invece un'intera divisione di Limoncini giunta di rinforzo dalla capitale, e ai nostri non restò che scegliere tra la resa o la fuga.
Cipollino tentò la fuga dalla parte della cantina ma la galleria che conduceva al bosco risultò occupata dalle truppe del Principe.
Chi aveva svelato loro il segreto della galleria?
Anche questo non ve lo posso nascondere: era stato Pisello. Vista la mala parata l'avvocato, purtroppo, era passato al nemico, per paura di essere impiccato una seconda volta.
La gioia di Pomodoro per la cattura di Cipollino fu tale che tutti gli altri prigionieri furono lasciati liberi e tornarono alle loro case, mentre Ciliegino fu messo in castigo in soffitta.
Cipollino fu accompagnato all'ergastolo da una intera compagnia di Limoncini, e rinchiuso in una cella sotterranea.
Due volte al giorno un Limonaccio di guardia gli portava una zuppa di pane e acqua in una ciotola. Cipollino la mandava giù senza nemmeno vederla, un po' perché aveva fame, un po' perché in carcere non accendevano mai la luce. Il resto della giornata Cipollino restava sdraiato sul tavolaccio a pensare.
— Se potessi incontrare il mio babbo, — pensava, — se almeno potessi fargli sapere che sono qui anch'io.
Giorno e notte una pattuglia di Limoncini passeggiava davanti alla porta della cella, battendo forte i tacchi.
— Mettetevi almeno i tacchi di gomma! — gridava Cipollino, che non riusciva a dormire. Ma quelli non si voltavano nemmeno.
Dopo una settimana lo vennero a prendere e lo portarono in cortile per fare una passeggiata. Cipollino dovette sgridare le sue gambe perché non erano più abituate a sostenerlo, poi dovette prendersela con gli occhi perché non erano più abituati alla luce e non riuscivano ad aprirsi.
Il cortile era rotondo, e gli ergastolani, vestiti tutti di una divisa a strisce bianche e nere, passeggiavano in tondo, in fila indiana.
Era severamente proibito parlare. Al centro del circolo un Limonaccio segnava il passo con il tamburo:
— Uno… due… uno… due…
Cipollino entrò nella fila e si trovò a camminare dietro un vecchio dalle spalle curve e dai capelli grigi: di quando in quando tossiva, e le sue spalle sussultavano dolorosamente.
— Povero vecchio, — pensava Cipollino, — se non fosse tanto vecchio assomiglierebbe al mio babbo.
A un tratto il prigioniero fu colto da un accesso di tosse così forte che barcollò e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Cipollino si affrettò a sorreggerlo e fissò il suo volto solcato da mille rughe. Anche il prigioniero lo guardò con gli occhi semispenti, poi lo afferrò per le spalle e sussurrò:
— Cipollino… figlio mio…
— Babbo! Come siete invecchiato!
Padre e figlio si abbracciarono forte forte.
— Cipollino, non piangere, — mormorava il vecchio, — fatti coraggio.
— Io non piango, babbo. Mi dispiace di vedervi così vecchio e malato. E pensare che avevo promesso di venirvi a liberare!
— Non ti crucciare. Torneranno anche per noi i giorni felici. Purtroppo l'ora della passeggiata era terminata e bisognava rientrare nelle celle.
— Ti farò avere mie notizie, — bisbigliò Cipollone.
— Ma come?
— Vedrai. Sta di buon animo, Cipollino.
— Arrivederci, babbo.
E il vecchio sparì in un corridoio. La cella di Cipollino era nel sotterraneo, ma adesso che aveva rivisto il suo babbo, non gli sembrava più tanto buia. Del resto, a guardarci bene, dal finestrino che dava sul corridoio un pochino di luce veniva. Ma un pochino tanto pochino, che bastava solamente per veder sfilare avanti e indietro gli stivali dei Limoncini.
Il giorno dopo, mentre si divertiva a contare e ricontare i tacchi di quegli stivali per far passare il tempo, Cipollino si sentì chiamare da una vocina strana, che non si capiva da che parte venisse.
— Chi mi chiama? — domandò stupito.
— Guarda sul muro.
— Ho un bel guardare, non vedo nemmeno il muro.
— Guarda vicino al finestrino.
— Ora ti ho visto. Ma tu sei un ragno. Che cosa cerchi quaggiù? Alle mosche non piace stare all'umido.
— Ho la mia rete al piano di sopra. Quando ho fame ci vado a guardare e qualcosa ci trovo sempre.

Un Limonacelo picchiò violentemente la porta.
— Silenzio, lì dentro. Si può sapere con chi parli?
— Sto dicendo le orazioni che mi ha insegnato la mia mamma, — rispose Cipollino.
— Dille sottovoce, — ribattè la guardia, — ci fai sbagliare il passo.
Il ragno scese più in basso e bisbigliò con la sua vocina vellutata:
— Ho un messaggio per te, da parte del tuo babbo.
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