— Questo è un paese libero, — miagolava il gatto, in tono risentito. — Non avete il diritto di arrestarmi. E poi, siete arrivati proprio nel momento in cui il topo che stavo spiando da un paio d'ore si decideva ad uscire dal suo nascondiglio.
— In prigione potrai trovare tutti i topi che vorrai, — rispose il comardante delle guardie.
Dopo una mezz'ora tornarono al Castello e trovarono la prigione vuota come la loro testa.
Chiusero in fretta il gatto nella cella, si tolsero spade e fucili e ne fecero un mucchio, lasciarono tutto lì e se la diedero a gambe per paura delle ire di Pomodoro.
Il quale il mattino dopo si alzò e si guardò allo specchio.
— Il naso è guarito, — constatò, — posso togliermi il cerotto. Dopo andrò ad interrogare i prigionieri.
Prese con sé il sor Pisello, come avvocato, e dòn Prezzemolo per fargli scrivere le risposte dei prigionieri, e tutti e tre in fila indiana, con aspetto grave, come si addice a dignitosi magistrati, si diressero verso la prigione. Pomodoro tirò fuori le chiavi dalla calza destra, aprì la porta e diede un balzo indietro, mandando a rotolare per terra don Prezzemolo che gli stava incollato alla schiena. Dalla cella uscì un lamentoso — Miao! Miao! — che avrebbe mosso le pietre a compassione.
— Che cosa fai qui? — domandò Pomodoro al gatto, quando si fu rimesso dalla sorpresa.
— Ho il mal di pancia! — si lamentava il gatto. — Per favore, fatemi trasportare all'infermeria, o almeno mandatemi un dottore.
Il gatto aveva passato la notte a dar la caccia ai topi, e ne aveva fatto una tale scorpacciata che gli uscivano di bocca non meno di duecento code.
Il Cavaliere, impressionato, rimise il gatto in libertà, ma lo pregò ili tornare in prigione, di quando in quando, a dare la caccia ai topi; anzi gli disse:
— Se terrai da parte le code, per documentare la tua benefica attività, l'Amministrazione del Castello ti passerà una piccola pensione, un tanto a topo.
Subito dopo, Pomodoro mandò al Governatore un telegramma, che diceva così: «Al Castello del Ciliegio, situazione gravissima. Urge vostra presenza con un battaglione di Limoncini».
Non c'è boia che non si stracchi se a Pirro Porro tira i mustacchi
Il Principe Limone fece il suo ingresso nel villaggio la mattina seguente, accompagnato da quaranta Limoni di corte e da un battaglione di Limoncini. Come sapete, alla corte del Principe Limone portavano tutti un campanello in cima al berretto e facevano un concerto straordinario.
All'udire quel fracasso, Pirro Porro, che si stava pettinando i baffi davanti allo specchio, si affacciò alla finestra, lasciando a mezzo la sua operazione. Così fu arrestato e condotto via, con un baffo all'in su e un baffo all'in giù.
— Lasciatemi almeno il tempo di pettinare anche il baffo sinistro! — supplicava Porro mentre le guardie lo portavano in prigione.
— Fate silenzio, altrimenti vi taglieremo il baffo sinistro e poi anche quello destro, risparmiandovi la fatica di pettinarli.
Pirro Porro se ne stette zitto per paura di perdere la sua unica ricchezza. Fu arrestato anche il sor Pisello.
— C'è un errore. Io sono un avvocato, sono al servizio del Cavalier Pomodoro. C'è un equivoco, lasciatemi subito in libertà.
Ma era come parlare col muro.
I Limoncini si accamparono nel parco. Per un bel pezzo si divertirono a leggere i cartelli di don Prezzemolo, poi per non annoiarsi cominciarono a strappare i fiori, a pescare i pesci rossi, a tirare al bersaglio contro i vetri delle serre e a prendersi altri spassi del genere.
Le Contesse andavano da un comandante all'altro con le mani nei capelli:
— Per favore, signori, preghino i loro uomini di moderarsi. Essi ci stanno rovinando tutto il parco.
I comandanti si irritarono moltissimo:
— I nostri eroi, — essi risposero, — hanno bisogno di svago dopo le fatiche belliche, e voi dovreste essere più riconoscenti.
Le Contesse fecero osservare che arrestare Pirro Porro e il sor Pisello non poteva essere stata una gran fatica. Allora il comandante rispose:
— Benissimo. Faremo arrestare pure voi, così guadagneremo meglio il nostro stipendio.
Alle Contesse non rimase che scappare via a lamentarsi col Principe Limone. Il quale, naturalmente, aveva preso alloggio al Castello con tutti i quaranta Limoni di corte, scegliendo le camere più belle e trattando senza complimenti Pomodoro, il Barone, il Duchino, don Prezzemolo e tutti quanti.
Il Barone era preoccupatissimo.
— Vedrete, — diceva sottovoce, — mangeranno tutte le provviste e noi morremo di fame. Se ne staranno qui fin che avranno mangiato tutto, poi se ne andranno lasciandoci nelle peste. E' una sciagura, è peggio del terremoto di Messina.
Il Governatore fece chiamare alla sua presenza Pirro Porro e cominciò ad interrogarlo, mentre don Prezzemolo, dopo essersi soffiato il naso nel suo fazzolettone a quadri, si accingeva a scrivere le risposte e Pomodoro sedeva alla destra del Governatore per fargli da suggeritore.
Bisogna sapere, infatti, che il Principe Limone, benché avesse in testa il campanello d'oro, non era molto intelligente, e soprattutto era distratto. Per esempio, appena il prigioniero fu condotto alla sua presenza, esclamò:
— Ma che bei baffi. In fede mia, in tutto il Governatorato non ho mai visto un paio di baffi così belli, così lunghi e così ben pettinati.
Pirro Porro, stando in prigione, non aveva altro da fare che pettinarsi i baffi.
— Grazie, Eccellenza, — disse umilmente.

— Anzi, — riprese il Governatore, — giacché ci siamo, vi voglio nominare Cavaliere del Baffo d'Argento. Olà, miei Limoni.
I dignitari accorsero subito alla chiamata.
— Portatemi una corona di Cavaliere del Baffo d'Argento. Gli portarono la corona, fatta a forma di un baffo che girava tutt'attorno ulla testa: però era d'argento, si capisce.
Pirro Porro era molto confuso: credeva di essere stato chiamato per venire interrogato, e invece si vedeva consegnare un'altissima onorificenza.
Si inchinò davanti al Principe il quale, tutto soddisfatto, gli mise in testa la corona, lo abbracciò e baciò sui due baffi, infine si alzò per andarsene.
Pomodoro si curvò a mormorargli all'orecchio preoccupatissimo:
— Altezza, vi faccio rispettosamente osservare che avete nominato Cavaliere un infame delinquente.
— Dal momento che l'ho nominato Cavaliere — rispose il Principe con sussiego, — non è più un delinquente. Tuttavia interroghiamolo pure.
E rivolgendosi a Pirro Porro, gli domandò se sapesse dove si erano rifugiati i prigionieri. Pirro Porro rispose che non sapeva niente. Il Principe gli domandò se sapeva dove fosse stata nascosta la casa del sor Zucchina, e Pirro Porro rispose di nuovo che non sapeva niente.
Pomodoro montò su tutte le furie:
— Altezza, quest'uomo mente. Propongo che sia messo alla tortura fin che non dica la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità.
— Benissimo, benissimo, — fece il Principe Limone fregandosi le mani: aveva già completamente dimenticato di aver decorato Pirro Porro un minuto prima ed era tutto contento all'idea della tortura, perché era di animo cattivo e crudele.
— Che tortura gli possiamo fare? — domandò il boia, arrivando con tutti i suoi strumenti, ossia forche, scuri, picche e fiammiferi per accendere eventualmente anche il rogo.
— Strappategli i baffi, — ordinò il Governatore.
Il boia cominciò a tirare i baffi del signor Porro, ma con tutto l'esercizio che avevano fatto a sostenere il peso della biancheria erano diventati così resistenti che non se ne staccò nemmeno un pelo. Pirro Porro non sentiva assolutamente nessun dolore e se la rideva di gusto. Il boia sudò, sbuffo, ringhiò, si stancò tanto che cadde svenuto. Pirro Porro fu riportato in una cella segreta dove fu dimenticato. Dovette nutrirsi di topi crudi e i baffi gli crebbero tanto che fecero due rotoli sul pavimento e qualsiasi lupo di mare li avrebbe scambiati per il cordame di un albero maestro.
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