Blake Pierce - Una Ragione per Morire

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“Una trama dinamica che ti afferra dal primo capitolo e non ti lascia più andare.” --Midwest Book Review, Diane Donovan (su Il killer della rosa)Dall’autore #1 di gialli best seller Blake Pierce arriva un nuovo capolavoro di tensione psicologica— UN MISTERO DI AVERY BLACK —che continua qui con UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6), un romanzo standalone. La serie inizia con UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #1)—disponibile come download gratuito con più di 200 recensioni a cinque stelle!Una donna viene ritrovata morta nel suo appartamento, chiusa in un guardaroba, ricoperta da ragni velenosi, e la polizia di Boston è in difficoltà. Gli indizi non portano a niente e tutti temono che l’assassino colpisca di nuovo. Disperata, la polizia non può fare altro che rivolgersi alla detective più brillante e controversa, Avery Black. Ormai ritirata, Avery, che sta vivendo un momento difficile, accetta con riluttanza di aiutare con il caso. Ma quando cominciano a trovare altri corpi, assassinati in modi grotteschi e inusuali, non può evitare di chiedersi: che si tratti di un serial killer in libertà?   Tra l’intensa pressione dei media e lo stress di ritrovarsi con una nuova partner senza esperienza, Avery è spinta al limite cercando di risolvere il bizzarro caso, e di evitare di precipitare nell’abisso.  Può solo cadere sempre più a fondo nella mente perversa dell’assassino, che contiene più segreti di quanti ne possa immaginare. Il libro più appassionante e scioccante della serie, un thriller psicologico di una suspense mozzafiato, UNA RAGIONE PER MORIRE vi terrà incollati alle pagine fino a notte fonda. “Un capolavoro del mistero e del giallo. Pierce ha fatto un lavoro magnifico sviluppando personaggi con un lato psicologico, descritti tanto bene che ci sembra di essere nelle loro teste, a provare le loro paure e applaudendo i loro successi. La trama è intelligente e vi terrà con il fiato sospeso per tutto il libro. Pieno di svolte inaspettate, questo libro vi terrà svegli fino a quando non avrete girato l’ultima pagina.” --Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (su Il killer della rosa)

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“No,” mentì lei. Lo fece facilmente e senza particolare pensiero. “Sono stata depressa, certo. Ma mai così tanto depressa.”

Sì, aveva omesso di parlare del suo quasi-suicidio. Non aveva nemmeno parlato del pacco di Howard Randall nel suo riassunto degli ultimi mesi. Non sapeva il perché. Per il momento le sembrava solo troppo privato.

“Essendo questo il caso,” disse la Higdon, “non vedo perché non dovrebbe tornare a lavoro. Ma penso che dovrebbe avere un partner. E so che è una faccenda delicata visto chi era il suo ultimo compagno. Tuttavia, non può mettersi in situazioni altamente stressanti da sola così presto. Le raccomanderei persino di non iniziare occupandosi di casi troppo impegnativi. Persino di fare lavoro d’ufficio.”

“Sarò sincera… questo non succederà.”

La Higdon fece un sorriso tirato. “Quindi pensa che farà così? Vedrà se tornare a lavoro la aiuterà a superare i suoi dubbi e il senso di colpa?”

“Presto,” rispose Avery, ripensando alla chiamata di Connelly di due giorni prima. “Sì, credo che potrei fare così.”

“Beh, le auguro ogni fortuna,” disse la Higdon, tendendosi a stringerle la mano. “Nel frattempo, si senta libera di chiamarmi se avesse bisogno di qualsiasi cosa.”

Avery strinse la mano della dottoressa e lasciò il suo ufficio. Odiava ammetterlo, ma si sentiva meglio di quanto non le succedesse da settimane, sin da quando aveva trovato la sua routine di esercizi fisici e mentali. Era certa di riuscire a pensare più chiaramente e non perché la Higdon le avesse svelato qualche verità nascosta. Aveva avuto solo bisogno che qualcuno le facesse notare che nonostante Rose fosse l’unica persona al di fuori del lavoro che le era rimasta nella vita, non significava che il modo in cui lei la vedeva e la paura del suo giudizio dovessero dettare legge su cosa avrebbe fatto con il resto della sua esistenza.

Guidò fino all’uscita più vicina per tornare alla cabina. Sulla sua sinistra svettavano gli edifici più alti di Boston. Il distretto era a soli venti minuti di distanza. Avrebbe potuto dirigersi da quella parte, fare visita a tutti e ricevere un caldo benvenuto. Avrebbe potuto strappare il cerotto e farlo.

Ma un caldo benvenuto non era quello che si meritava. In effetti, non era certa di che cosa meritasse.

E forse era da lì che derivava l’ultima briciola di esitazione.

***

L’incubo di quella notte non le era nuovo, ma era una variante del solito.

Nel sogno, era seduta nella sala visite del carcere. Non era quella in cui le era capitato a volte di visitare Howard Randall, ma uno spazio più ampio e dall’aria quasi antica. Rose e Jack erano seduti attorno al tavolo, con una scacchiera tra di loro. Tutti i pezzi erano sulla tavola, solo i re erano stati catturati.

“Lui non è qui,” disse Rose, con la voce che riecheggiava nella stanza cavernosa. “La tua piccola arma segreta non è qui.”

“Meglio così,” continuò Jack. “Era ora che imparassi a risolvere i casi più difficili da sola.”

Poi il suo ex marito si passò una mano sulla faccia e in un batter d’occhio, apparve con l’aspetto che aveva avuto la notte che lei aveva scoperto il suo corpo. Il lato destro del volto era coperto di sangue e tutta la carne sembrava incavata verso l’interno e pendente. Quando aprì la bocca, non c’era più la lingua. C’era solo oscurità tra i suoi denti, un abisso da cui uscivano le sue parole e, Avery sospettava, dove desiderava che lei finisse.

“Non sei riuscita a salvarmi,” disse l’uomo. “Non sei riuscita a salvarmi e ora devo fidarmi di lasciarti mia figlia.”

In quel momento Rose si alzò e iniziò ad allontanarsi dal tavolo. Avery si alzò insieme a lei, certa che sarebbe successo qualcosa di molto brutto se l’avesse persa di vista. Fece per seguirla ma non riuscì a muoversi. Abbassò lo sguardo e vide che entrambi i suoi piedi erano stati inchiodati a terra con delle enormi traversine. Erano distrutti, niente più di sangue, ossia e brandelli di carne.

“Rose!”

Ma sua figlia si limitò a girarsi per guardarla, sorridere e farle un cenno di saluto. E man mano che si allontanava, la stanza sembrava diventare più grande. Ombre emersero da ogni direzione, calando sulla ragazza.

“Rose!”

“Va tutto bene,” disse una voce alle sue spalle. “La terrò d’occhio io.”

Si voltò e vide Ramirez, la mano sulla pistola e intento a scrutare tra le ombre. E quando cominciò ad avanzare eroicamente per salvare Rose, le ombre iniziarono a discendere anche su di lui.

“No! Rimani qui!”

Tirò contro i chiodi conficcati nei piedi ma inutilmente. Poté solo guardare mentre le due persone che aveva amato di più al mondo venivano inghiottite dell’oscurità.

E in quel momento iniziarono le grida, in mezzo alle ombre, mentre Rose e Ramirez riempivano la stanza con le loro urla agonizzanti.

Ancora al tavolo, Jack la supplicò: “Per l’amore del cielo, fai qualcosa!”

Fu allora che Avery scattò a sedere sul letto, con un grido tra le labbra. Accese la lampada sul comodino con mano tremante. Per un istante ancora, vide l’enorme stanza tutta intorno a sé, che lentamente svanì, cacciata dalla luce e dalla veglia. Fissò la camera da letto ancora nuova della sua cabina e per la prima volta si chiese se lì si sarebbe mai sentita a casa.

Si ritrovò a pensare alla chiamata di Connelly. E poi al pacco di Howard Randall.

La sua vecchia vita la perseguitava nei sogni, certo, ma stava anche invadendo quella nuova esistenza isolata che aveva cercato di costruire per se stessa.

Sembrava che non avesse via di scampo.

Ma forse, solo forse, era il momento di smetterla di fuggire.

CAPITOLO CINQUE

Non appena aveva smesso di bere nei momenti più miserabili del suo periodo di lutto, aveva lentamente sostituito il consumo d’alcool con quello di caffeina. Mentre leggeva beveva solitamente due tazze di caffè intervallate da una Diet Coke. Per quel motivo, dopo qualche settimana, aveva cominciare a soffrire di mal di testa se passava più di un giorno senza caffeina. Non era il modo più sano di vivere ma era certo meglio che affogare la disperazione nell’alcol.

Era per quello che il giorno seguente, dopo pranzo, si ritrovò in un bar. Era uscita principalmente per fare la spesa, avendo finito il caffè alla cabina, e avendone bevuta solo una tazza di prima mattina, le serviva una rapida dose prima di tornare a casa a concludere la giornata. Aveva un libro che voleva finir di leggere e stava anche pensando di tornare nei boschi per provare di nuovo a dare la caccia ai cervi.

Il bar era uno dei posti più alla moda della zona, e c’erano quattro persone curve dietro i loro Macbook nel locale. La fila alla cassa era lunga, persino per quell’ora del pomeriggio. In tutto il posto riecheggiava il brusio di conversazioni, il ronzio delle macchine dietro al bancone del ber e la televisione tenuta a basso volume in un angolo del locale.

Avery arrivò alla cassa, ordinò il suo chai con doppia dose di espresso e si accomodò nell’area d’attesa. Passò il tempo guardando la lavagnetta di sughero piena di volantini di eventi locali: concerti, rappresentazioni teatrali, raccolte di denaro…

E poi notò la conversazione alle sue spalle. Fece del suo meglio per non far capire che stava origliando, tenendo gli occhi fissi sulla lavagnetta degli eventi.

C’erano due donne alle sue spalle. Una era sulla ventina, e portava stretta al petto una fascia per neonati. Il bambino dormiva in silenzio appoggiato a lei. L’altra aveva qualche anno di più, un drink in mano e non sembrava pronta a uscire dal locale.

Entrambe erano concentrate sulla televisione dietro il bancone. Conversavano a bassa voce, ma lei le sentiva ugualmente con facilità.

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