In cima alla prima c’era un mucchio di album fotografici. Dato che sulla veranda aveva ripensato a Rose, li prese subito. Ce n’erano tre in tutto, uno dei quali era pieno delle sue foto dei tempi del college. Lo accantonò per aprire il secondo.
Rose era lì a fissarla. Aveva dodici anni, ed era su uno slittino con una cuffietta coperta di neve. Sotto quell’immagine, Rose continuava ad avere dodici anni. Nella seconda stava dipingendo quello che sembrava un campo di girasoli su un cavalletto nella sua vecchia camera da letto. Avery sfogliò tutte le foto fino ad arrivare a metà dell’album, quando ne trovò una che era stata scattata solo tre Natali prima. Rose e Jack, il padre di sua figlia, stava ballando con aria buffa davanti a un albero di Natale. Entrambi erano sorridenti al punto dell’euforia. Sulla testa di Jack un cappello da Babbo Natale pendeva sbilenco e sullo sfondo brillavano gli addobbi.
Era una pugnalata al cuore, perforante, dolorosa e bruciante. Il desiderio di piangere la travolse come un’esplosione. Non le era ancora capitato da quando si era trasferita lì, anche perché nel corso della carriera era diventata piuttosto brava a soffocare i propri sentimenti. Ma in quel momento la colpì, all’improvviso, e prima che potesse controllarlo, la sua bocca si aprì e ne emerse un gemito agonizzante. Si strinse una mano al petto come se quel pugnale immaginario fosse veramente nella sua carne, e si lasciò cadere sul pavimento.
Provò a rialzarsi, ma il suo corpo era in rivolta. No, sembrava che le stesse dicendo. Ti devi concedere questo momento per piangere. Devi singhiozzare. Devi elaborare il lutto. E chi lo sa? Magari poi ti sentirai anche meglio.
Si strinse all’album fotografico e se lo premette al cuore. Singhiozzò senza controllo, permettendosi di essere vulnerabile per un unico istante. Odiava che lasciarsi andare e crollare così fosse tanto liberatorio. Gemette e pianse, senza dire niente, senza invocare nessuno, né appellandosi a Dio o offrendo preghiere. C’era solo il dolore.
E fu veramente liberatorio. Quasi come un esorcismo.
Non sapeva quanto tempo aveva passato seduta lì sul pavimento, tra le scatole. Tutto ciò che capì, una volta alzata in piedi, era che non sentiva più la necessità di stordirsi con il contenuto di una bottiglia. Aveva bisogno di schiarirsi le idee e di fare ordine tra i pensieri.
C’era una bisogno familiare nelle sue mani, persino più potente del desiderio di nascondere le emozioni con l’alcool. Strinse le dita in deboli pugni e pensò a bersagli di carta e alle lunghe sale dei poligoni di tiro.
Iniziò a sentirsi meglio e le vennero in mente i pochi oggetti che aveva nella camera da letto che uno di quei giorni avrebbe ordinato e decorato. Non c’era molto, ma di sicuro aveva qualcosa di cui si era quasi dimenticata nella nebbia degli ultimi giorni. Lentamente, cercando di farsi coraggio mentre avanzava nel soggiorno pieno di scatole, Avery arrivò alla camera.
Per un istate rimase ferma alla porta e studiò l’arma che aveva appoggiato in un angolo.
Il fucile era un Remington 700 che aveva sin da quando si era diplomata al college. Durante l’ultimo anno, aveva progettato di trasferirsi in un posto remoto per dare la caccia ai cervi durante l’inverno. Suo padre lo aveva sempre fatto e, anche se lei non era particolarmente brava, se lo ricordava con piacere. Le sue amiche l’aveva spesso presa in giro per la sua passione per la caccia e probabilmente aveva anche spaventato un possibile fidanzato o due al liceo con il suo affetto per quello sport. Quando suo padre era morto, la famiglia l’aveva supplicata di prendere il fucile, convinta che l’uomo avrebbe voluto lasciarlo a lei.
L’oggetto aveva viaggiato molto, in un trasloco dopo l’altro, di solito nascosto in un armadio o sotto un letto. Due giorni dopo essersi trasferita lì, lo aveva portato a un rivenditore locale d’armi e gliel’aveva fatto pulire. Quando lo aveva ritirato, aveva anche acquistato tre scatole di cartucce.
Immaginando che fosse meglio battere il ferro finché era ancora caldo, si spogliò fino alle mutande e indossò un paio di pantaloni termici. Non era troppo freddo quella mattina, qualche grado sopra lo zero, ma non era abituata a stare fuori nei boschi. Non possedeva niente di mimetico, quindi si decise per un paio di pantaloni verde scuro e un maglione nero. Era consapevole che non fosse l’abbigliamento più sicuro per andare a caccia di cervi, ma per il momento se lo sarebbe fatto bastare.
Si infilò un sottile paio di guanti (dopo aver cercato dentro l’ennesimo scatolone per ritrovarli), si allacciò le scarpe più robuste che aveva e uscì. Salì in auto e guidò per due miglia fino a una strada sterrata che conduceva a una zona del bosco di proprietà dell’uomo da cui aveva acquistato la casa. Le aveva dato il permesso di cacciare nel suo terreno, come clausola aggiuntiva o una specie di bonus per averlo pagato diecimila dollari più del prezzo richiesto.
Trovò un punto a lato della strada che era stato ovviamente usato per anni dai cacciatori come parcheggio o spiazzo per svoltare. Lasciò lì l’auto, con la portiera del lato del guidatore a pochi centimetri dal sentiero. Poi prese il fucile e si addentrò nel bosco.
Si sentiva sciocca, a marciare tra gli alberi. Non cacciava da almeno cinque anni, dal weekend in cui aveva ricevuto il fucile. Non aveva l’attrezzatura, gli stivali giusti, l’odore di cervo da spruzzare sugli alberi, il cappello né il gilè arancione brillante. Ma sapeva anche che era mercoledì mattina e che il bosco era praticamente vuoto. Le sembrava di essere la ragazza timida che giocava a basket da sola e che si allontanava quando quelli bravi arrivavano in palestra.
Camminò per venti minuti fino a un rialzo nel terreno. Si mosse in silenzio, con la stessa cautela sviluppata lavorando come detective della omicidi. Il fucile tra le mani era piacevole, anche se un po’ strano. Era abituata ad armi molto più piccole, la sua Glock in particolare, quindi il fucile le sembrava più potente. Arrivata in cima al rialzo, notò una quercia caduta a una certa distanza. La usò per ripararsi un minimo, sedendosi sul terreno e poi scivolando in avanti con la schiena contro l’albero rovesciato. In quella posizione reclinata, si appoggiò di fianco il fucile e alzò lo sguardo verso le cime degli alberi.
Rimase sdraiata tranquilla, sentendosi più a suo agio con il mondo di quanto non fosse stata sulla sua veranda poco prima. Sorrise immaginando Rose là fuori insieme a lei. La figlia detestava qualsiasi cosa c’entrasse con l’aria aperta e le sarebbe venuto un colpo se avesse saputo che sua madre in quel momento era seduta in mezzo ai boschi con un fucile, per dare la caccia ai cervi. Pensando a Rose, Avery riuscì a schiarirsi la mente e a concentrarsi su ciò che la circondava. E fu a quel punto che gli istinti sviluppati nel corso della sua carriera presero il sopravvento.
Sentiva il fruscio delle foglie per terra insieme a quelle sugli alberi, le ultime che si ostinavano testardamente ad opporsi all’inverno in arrivo. Udì qualcosa che si muoveva in alto a destra sopra di lei, probabilmente uno scoiattolo uscito a controllare il vento. Non appena si fu abituata all’ambiente, chiuse gli occhi e si permise davvero di lasciarsi andare.
Continuava a sentire tutto ma allo stesso tempo percepiva la propria mente che faceva ordine tra i pensieri. Jack e la sua ragazza, entrambi morti. Ramirez, morto e sepolto. Pensò a Howard Randall, caduto nella baia e probabilmente morto anche lui. E alla fine vide Rose… e come il suo lavoro l’avesse costantemente messa in pericolo. Rose non se l’era meritato, non era quello che aveva voluto per lei. Per tutto quel tempo aveva fatto del suo meglio per esserle di supporto, ma aveva raggiunto il suo limite.
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