“Non gli ho mai più parlato dopo quella sera. È finito in prigione prima del sorgere del sole.”
“Guardami,” gli intimò lui.
L’uomo alzò gli occhi.
“Dillo di nuovo, ma questa volta senza distogliere lo sguardo.”
L’altro lo fissò in viso. “Non ho parlato con Speck. Non so dove lo abbiano rinchiuso né se stia confessando o meno. Non ho idea se sappia chi sei, ma in quel caso mi sembra ovvio che ancora non ti abbia tradito.”
“Perché non sei scappato?” gli chiese allora lui.
Non era una domanda oziosa. Murphy si stava ponendo lo stesso interrogativo. Sarebbe potuto svanire. Subito, quella sera. O quella seguente. Comunque presto. Aveva due milioni e mezzo di dollari in contanti. Una cifra simile poteva bastare a lungo a un uomo come lui, e con le sue… particolari abilità… poteva rifornirsi quando voleva.
Ma così avrebbe passato il resto della vita guardandosi le spalle. E se fosse scappato, una delle persone che gli avrebbe dato la caccia era Luke Stone. Non era un pensiero rassicurante.
L’altro fece di nuovo spallucce. “Mi piace qui. Amo la mia vita. Ho un bimbo piccolo che vedo di tanto in tanto.”
Murphy non apprezzò il modo in cui il tizio stava infilando il figlio nella conversazione. Quell’assassino a sangue freddo, che aveva confessato l’assassinio di una giovane madre, e che era complice dell’omicidio di due bambini e chissà di chi altro, stava cercando di muoverlo a compassione.
Si avvicinò all’altra sedia ed estrasse la pistola dalla fondina. Avvitò il silenziatore sulla canna dell’arma. Era di buona qualità, non avrebbe fatto molto rumore. Era un suono che gli ricordava una pinzatrice da ufficio che perforasse una pila di fogli. Clack, clack, clack.
“Non hai motivo di uccidermi,” lo implorò l’uomo dietro di lui. “Non ho detto niente a nessuno, né ho intenzione di farlo.”
Murphy non si girò ancora. “Sai come si dice, che è meglio risolvere le questioni in sospeso? Voglio dire, fai anche tu questo lavoro, no? Speck forse sa chi sono, o magari no. Ma tu lo sai per certo.”
“Hai idea di quanti segreti io abbia?” insistette il tizio. “Se mai mi prendessero, credimi, saresti l’ultimo dei loro pensieri. Non so nemmeno chi sei, non conosco il tuo nome. Quella notte ho solo visto un uomo, forse con i capelli scuri, basso, sotto il metro e ottanta, avrebbe potuto essere chiunque.”
Finalmente lui si voltò per guardarlo. Il suo prigioniero sudava, aveva il volto lucido e bagnato, anche se lì dentro non faceva caldo.
Alzò la pistola e gliela puntò al centro della fronte. Nessuna esitazione. Nessun suono. Non disse una parola. Pareva una composizione scultorea, immersa in un cerchio di luce chiara.
L’uomo prese a parlare più in fretta. “Senti, non farlo,” disse. “Ho del denaro. Molto denaro. Sono l’unico che sa dove è.”
Murphy annuì. “Sì, anche io.”
Premette il grilletto e…
CLACK.
Fu un po’ più rumoroso del normale. Non aveva preso in considerazione l’eco nell’ampio spazio vuoto. Scrollò le spalle. Non aveva importanza.
Se ne andò senza degnare il disastro a terra di un secondo sguardo.
Dieci minuti più tardi era in auto, e stava sfrecciando sulla Beltway. Il suo cellulare squillò. Era un numero privato. Non significava niente. Potevano essere buone notizie, ma anche cattive. Rispose.
“Sì?”
Una voce femminile: “Murph?”
Sorrise. Riconobbe subito la donna dall’altro capo.
“Trudy Wellington,” esclamò. “Che bello ricevere una tua chiamata nel cuore della notte. Se mi dici da dove chiami, ti raggiungo subito.”
Lei trattenne una risata. Murphy glielo sentì nella voce. Era quello il modo giusto per entrare nel cuore, e nella camera da letto, delle donne.
“Ah… come no. Ti piacerebbe. Ti chiamo dagli uffici del GIS. C’è una crisi e hanno bisogno di noi. Don deve radunare un po’ di gente, il prima possibile. E vuole te.”
10:20 p.m. Ora legale orientale
Fairfax County, Virginia
Sobborghi di Washington, DC
“Che ne pensi, piccolo?”
Luke Stone sussurrò la domanda. Probabilmente solo lui riuscì a sentirla.
Era seduto sul lungo divano bianco nel suo nuovo soggiorno, con Gunner, il figlio di quattro mesi, in grembo. Gunner era un bambino grande e pesante. Aveva indosso un pannolino e una maglietta blu su cui campeggiava la scritta World’s Best Baby, ‘Il bambino migliore del mondo’.
Si era addormentato tra le sue braccia da qualche tempo. Il suo pancino si alzava e si abbassava, e nel sonno russava piano. Era normale che un bambino russasse? Luke non lo sapeva, ma per qualche motivo trovava quel suono confortante. Di più, era persino piacevole.
L’agente speciale teneva in grembo il figlio nella penombra e si guardava attorno nella stanza, cercando di dare un senso alla casa.
Quel posto era un regalo di Audrey e Lance, i genitori di sua moglie Becca. Già quel fatto da solo difficile da mandar giù. Lui non si sarebbe mai potuto permettere quella casa con il suo stipendio da dipendente governativo, nonostante fosse di più di quello che aveva guadagnato quando era nell’esercito. Becca invece non lavorava affatto, ma anche se lo avesse fatto, neanche i loro due stipendi insieme sarebbero stati sufficienti per comprare un appartamento con quello. L’acquisto gli aveva dato una nuova prospettiva sulla ricchezza reale della famiglia della moglie.
Aveva saputo che fossero danarosi. Ma Luke era cresciuto senza soldi e non aveva idea di cosa fosse la vera ricchezza. Fino a poco prima lui e Becca avevano vissuto nel cottage della famiglia della moglie, sulla costa orientale di Chesapeake Bay, e quella casetta centenaria, pur essendo a un’ora e mezza di distanza dal suo lavoro, era stata una soluzione abitativa spettacolare. In precedenza Luke era stato abituato a dormire sulla dura terra, o a non dormire affatto.
Ma quel posto?
Si guardò intorno nella sala. Era una costruzione moderna, con grandi finestre alte fino al soffitto. Sembrava uscita da una rivista di architettura, una scatola di vetro. Quando fosse arrivato l’inverno e avesse nevicato, probabilmente sarebbe sembrata uno di quei globi di neve che si usavano quando era piccolo. Riusciva a immaginarsi come sarebbe stato passare lì il Natale, seduto in quel magnifico salotto, con l’albero in un angolo, il caminetto acceso e i fiocchi candidi che gli volteggiavano tutt’intorno.
E quello era solo il soggiorno. Poi c’era l’enorme cucina rustica dominata dall’isola e dal gigantesco frigo con freezer incorporato a due porte. E la camera da letto principale con il bagno, e poi tutto il resto del posto. Oltretutto era a una decina di minuti dal suo ufficio.
Da dove era seduto, sul divano, poteva vedere le grandi finestre aperte verso sud e a ovest. La casa si trovava sopra una piccola collinetta erbosa, e grazie all’altezza il panorama era spettacolare. Era in un quartiere tranquillo pieno di costruzioni altrettanto grandi, a una certa distanza dalla strada. Nella loro via non si poteva parcheggiare. Era il tipo di zona dove la gente lasciava l’auto nel proprio viale d’ingresso o nel garage.
Luke non aveva ancora incontrato i nuovi vicini, ma immaginava che fossero avvocati, magari dottori, o persone con incarichi aziendali di alto livello. Nutriva sentimenti contrastanti al riguardo. Ma non nei confronti dei vicini, bensì della casa.
Tanto per iniziare, non si fidava di Audrey e Lance.
Non era mai piaciuto ai genitori di Becca. I due lo avevano sempre messo in chiaro. Anche dopo la nascita di Gunner, erano stati riluttanti a lasciar usare il loro cottage alla figlia e al genero. Audrey in particolare era sempre stata una maestra nel commento maligno. Riusciva di continuo a metterlo in cattiva luce con la moglie.
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