Ariele Morinini - Il nome e la lingua

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La presente monografia si propone di ripercorrere, con approcci metodologici diversi, la formazione e lo sviluppo della percezione di un'identità linguistica, letteraria e culturale nel territorio della Svizzera italiana. La ricerca muove dall'indagine sull'evoluzione semantica delle denominazioni impiegate nella regione, dal Medioevo all'istituzione degli Stati moderni, per giungere alle opere e al pensiero degli studiosi e degli scrittori che hanno animato il dibattito identitario nei secoli XIX e XX, tra i quali Stefano Franscini, Carlo Salvioni e Francesco Chiesa. In appendice al volume è edito il Dizionariuccio Ticinese-luganese-italiano di Francesco Cherubini, accompagnato da
una scelta di documenti relativi alla sua attività svizzero-italiana.

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Tornando ai rapporti di quest’area col milanese, lo stretto legame del territorio prealpino con la regione lombarda e con il centro cittadino di Milano è ribadito e documentato in varie fonti. Fra esse va incluso un passo della cronaca dell’inglese Adamo da UskUskAdam de (ca. 1352-1430). Nel suo resoconto, Adamo descrive l’itinerario che da Londra lo conduce verso l’Italia con un rapido elenco di toponimi, che l’autore interrompe per soffermarsi sul difficile passaggio del Monte Gottardo, avvenuto nel mese di marzo del 1401. Superate le Alpi Lepontine il cronista giunge nel borgo di Bellinzona, situato come naturale nello spazio geografico e culturale della Lombardia:

Quid mora? XI. kalendas Marcii, anno Domini 1401, presencium compilator, ut, Deo disponente, proposuit, Londoniis apud Byllyngesgate navem ingressus, prospero flante vento et mari sulcato, in Barbancia terra satis votiva, apun Berwk-super-sabulum, suos gressus versus Romam dirigendo, infra diem naturalem terre applicuit. Et extunc per Dyst, Mestryk, Aquas Grani, Coloniam, Bunnam, Confluenciam, Wormeciam, Spiram, Argentinam, Brisacam, Basiliam, Luceriem et ejus mirabilem lacum, Bernam [sic: Uraniam?], motem Godardi et ejus cacuminis hermitogium, in caruca per bovem tractus, nivis frigoribus quasi peremptus, oculis velatis, ne loci discriminia conspiceret, ad Belsonam [Bellinzona] in Lumbardia Palmarum devenit vigilia.11

Coerentemente con quanto documentato in questo testo, anche i riferimenti agli abitanti del territorio menzionano in alcuni casi la provenienza lombarda, così come il glottonimo analogo definiva fra il basso Medioevo e prima la età moderna la parlata della regione, la «lingua nostra».12 Lo testimonia, ad esempio, una lettera scritta dal commissario Carlo da Cremona ai duchi di Milano l’8 novembre del 1478, ovvero pochi mesi prima della battaglia di Giornico, in un momento di forte tensione tra gli svizzeri e i milanesi. Nella missiva si avvisa il Duca Gian Galeazzo Maria SforzaSforzaGian Galeazzo Maria (1469-1494) che un tale Laurenzio del FurnoFurnoLaurenzio del, conoscitore della lingua lombarda e di quella tedesca, fu inviato a Pollegio per un colloquio con il balivo della Leventina, al fine di scoprire cosa stava capitando in quelle terre. Dopodiché, Laurenzio è mandato a Milano per riferire le informazioni ottenute ai sovrani:

Illustrissimi principes et excellentissimi domini domini nostri singularissimi, humilima cum recomendatione. Noverint excellentie prelibatarum dominationum vestrarum quod trasmissimus Laurentium del Furno, habitatorem huius terre, harum exhibitorem, qui habet linguam lombardam et theutonicham , pro isto motu Svyziorum ad locum Polezii, in confinibus vallis pro magnificis dominis de Liga confederatorum, ut certiores efficeremus de isto motu ipsorum Svyzerorum, si quicquam de certo habere poterat, qui nobis quod habere et intelligere potuit, retulit […].13

Attestazioni analoghe si trovano inoltre nelle carte delle tesorerie papali di Roma relative al cantiere di San Pietro, dove erano impiegati numerosi artigiani settentrionali. Fra queste, nel periodo del pontificato di Nicolò VParentuccelli (Nicolò V)Tommaso, che diede un notevole impulso all’attività edilizia romana, i registri menzionano, con esplicito riferimento alla sua origine lombarda, un debito contratto nei confronti di un architetto di Lugano per la costruzione di un palazzo presso le sorgive termali di Viterbo:

Magistro Stefano de Beltramo de Doxi da Lughano muratore lombardo de’avere pagati a lui a dì 17 de magio del dicto anno 1454 per parte di pagamenti del lauoro per lui facto e da farsi in nela casa che se fa de comandamento di Nostro Signore a li bagni de la gropta et crutiata de Viterbo ducato d’oro di camera 600.14

Non diversamente, fra le carte dell’Archivio Segreto Vaticano si legge un mandato di pagamento in favore di un tale «Domenico de LucarnoDomenico da Locarno [Locarno], lombardo, calcararo», con analogo riferimento etnico.15 Questo mastro, attivo a Roma tra il 1463 e il 1469, è identificato da alcuni studiosi con il Domenico dal Lago di LuganoDomenico dal Lago di Lugano menzionato quale allievo di BrunelleschiBrunelleschiFilippo nel Trattato di architettura del FilareteFilareteAntonio di Pietro Averlino (detto il), dedicato a Francesco SforzaSforzaFrancesco (1401-1466).16 Il trattato, composto presumibilmente tra gli ultimi anni cinquanta e i primi sessanta del secolo XV, è strutturato in forma di un ipotetico dialogo tra l’architetto e il duca attorno alla progettazione della città ideale, la Sforzinda.17 Il mastro luganese è nominato nel sesto libro dell’opera, quando FilareteFilareteAntonio di Pietro Averlino (detto il) discute della progettazione e preparazione delle sculture celebranti le battaglie di Francesco SforzaSforzaFrancesco poste all’entrata del castello, e della necessità di convocare maestri da varie regioni per compiere il lavoro in maniera adeguata:

Ancora dove sentì che fussino buoni maestri di scolpire mandamo: a Siena, dove era uno da Cortona, il quale aveva nome Urbano […]. Venneci ancora Domenico del Lago di Logano, discepolo di Pippo di ser Brunellesco; uno Geremia da Cremona, il quale fece di bronzo certe cose benissimo; uno di Schiavona, il quale era bonissimo scultore; uno catelano.18

Diversamente dai casi precedenti, la denominazione impiegata nel trattato usa un riferimento geografico più ampio del consueto rimando municipale, come talvolta accade per le vallate maggiori della regione, richiamate in sostituzione di un toponimo che probabilmente doveva apparire o risultare inutile in termini orientativi anche a poca distanza dallo stesso.

In questo secolo, come nei seguenti, si recuperano svariate attestazioni affini, in prevalenza riferite ai due maggiori laghi, il Verbano e il Ceresio, e alle contigue vallate cisalpine. Ad esempio, nel 1473, per celebrare la cessazione di una pestilenza, la popolazione luganese decise con un voto pubblico di offrire una cappella alla Madonna delle Grazie nella cattedrale di San Lorenzo.19 La sua costruzione fu completata nel 1494, lo testimonia la lapide posta a lato della cappella, ricostruita in stile barocco tra il 1771 e il 1774, sulla quale si legge un’iscrizione che documenta l’uso del riferimento geografico relativo alla Valle di Lugano. Una denominazione oggi desueta, riferibile al territorio che si estende dal Camoghè al lago Ceresio, seguendo il corso del fiume Vedeggio. Trascrivo di seguito l’epigrafe:

M. CD. XC. IV. DIE XXII MAJI HORA XVI

FVNDATA FVIT HAEC CAPPELLA

SVB VOCABVLO

S. MARIAE GRATIARVM

PROPTER DEVOTIONEM IBIDEM ALIAS INCEPTAM

ANNO M. CD. LXXIII. DIE III MAJI

PROPTER PESTILENTIAM TVNC REGNANTEM IN VALLE LVGANI

CESSAVIT FACTA DICTA DEVOTIONE20

Dieci anni prima, in un contratto rogato l’11 maggio 1484 da tale «Petrus de Muralto», che regolamentava i lavori del falegname e muratore Lorenzo da MassagnoLorenzo da Massagno presso le proprietà della diocesi a Sorengo, si legge una denominazione analoga. Nella pergamena conservata presso l’Archivio di Lugano è vergata la seguente lista di testimoni: «ser Donato de la Ture Mendrixii, habitatore Mendrixii, filio condam domini Gasparis, Francischo de la Barlina, vallis Lugani, filio condam magistri Iacobi, et Iacobo de Miliera, dicte vallis, filio condam Antonii».21

Al tempo, in italiano e nelle altre lingue romanze o germaniche, le denominazioni etniche più ricorrenti facevano riferimento, come noto, alla dimensione di una piccola patria, ovvero a un sentimento di appartenenza comunale. In alcune situazioni, tuttavia, a questa si somma o si sostituisce il più leggibile riferimento alle podestà parrocchiali e vescovili: nel caso delle terre prealpine, dunque, alle pievi e alle diocesi di Como e di Milano. A questo proposito, una testimonianza significativa si trova scolpita nel Duomo di Trento. Sul paramento del coro è collocata una lastra sulla quale si legge un’iscrizione sepolcrale per l’architetto Adamo da ArognoAdamo da Arogno, il primo di una successione di artigiani provenienti dal piccolo paese lombardo attivi nel cantiere trentino; tra cui perlomeno Enrico di Fono da ArognoEnrico di Fono da Arogno, suo figlio ZanibonoZanibono da Arogno e il nipote di Adamo, suo omonimo.22 Nell’iscrizione, collocata verso la fine del secolo XIII, è ricordato l’ultimo giorno del febbraio 1212 come la data d’inizio della ricostruzione del Duomo, avvenuta per disposizione del principe vescovo Friedrich von WangenWangenFriedrich von (1207-1218). L’epigrafe che qui trascrivo, un’indubbia testimonianza del prestigio ottenuto dalla famiglia di Arogno nel cantiere del Duomo, identifica il mastro della Val Mara, oltre che sulla base della provenienza comunale, facendo menzione della giurisdizione diocesana del suo borgo d’origine:

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