1 ...6 7 8 10 11 12 ...41 Meco di me mi meraviglio spesso,
ch’i’ pur vo sempre, et non son anchor mosso
dal bel giogo piú volte indarno scosso,
ma com piú me n’allungo, et piú m’appresso.
I fragmenta sono inoltre la forma per eccellenza della vita «partita» dai continui esilî.76 Partita, se non spezzettata, anche quand’è in cerca d’una sua unità. Fin dalla giovinezza, il corso dell’esistenza petrarchesca è posto sotto il segno della digressio .77 Non insisteremo sul livello macrostrutturale (la partizione 263 / 264 e il travaglio ad essa connesso, fino alla vigilia della morte),78 se non per ricordare che l’esilio di Laura in cielo (in realtà ritorno alla patria celeste) interviene sullo sfondo dell’esilio perpetuo dell’anima da se stessa, scissa tra i due porti antinomici verso i quali naviga: quello terreno dell’amore per Laura, o meglio della sua immagine memoriale (specie quando «sol memoria m’avanza»: Rvf 331, 10); 79 e quello di lassú raggiunto per l’appunto dall’amata. E che si ripercuote frattalmente nella partizione-frantumazione a tutti i livelli, esistenziali come scrittorî.
Quella dei fragmenta è in generale lingua dell’allontanamento: notiamo anche la presenza massiccia delle figure (in tutti i sensi) della distanziazione, o disgiunzione (sintattica),80 e della dissociazione,81 della scissione, delle dicotomie e delle antitesi…
Legherei allora tutto ciò alla crisi della referenzialità già evocata sopra, che poggia sulla particolare struttura del verso petrarchesco nelle sue componenti lessicali, sintattiche, e perfino ritmiche, con la «moltiplicazione delle sostanze e [la] loro frammentazione».82 Come in un processo di allontanamento dagli oggetti del mondo nella loro prepotente corporeità, il loro spessore triviale, e quindi un esiliarsi da esso mondo, a favore del viaggio interiore nei coaguli di coscienza.83
Il rischio di estenuazione del desiderio per colpa dell’oggetto sfuggente porta d’altronde il Petrarca in senso apparentemente contrario, ad allontanare, esiliare in poesia il detto oggetto al fine d’evitare la sua scomparsa: con perifrasi e traslati («colei che sola a me par donna», «fera bella e cruda» e «candida cerva», e, con lo stigma dell’emblema o dell’allusività, la quasi latina «arbor victorïosa trïumphale», «l’aura gentil», etc.),84 in cui si risolve la logica paradossale di tale desiderio, e della sua espressione.85 Se dobbiamo prendere alla lettera l’idea che ci sia evasività della lingua petrarchesca,86 questa caratteristica si dà anche perché evade da ogni realtà riconducibile all’attualità e all’identità (in senso proprio, letterale: ché l’identico petrarchesco non è mai identico a se stesso, come dimostrano, per stare a un esempio lampante, i rimanti delle sestine).
E su tutto ciò incombe infine il rischio dell’esilio da se stesso (cfr. per esempio Rvf 29, 36: «Da me son fatti i miei pensier’ diversi»),87 che tra le sue diverse modalità possibili può sfociare nell’afasia, prendere la forma specifica d’un esilio nel mondo del silenzio, almeno per quanto riguarda l’espressione lirico-elegiaca degli stati interiori.88
Procediamo, per finire, a un sondaggio piú puntuale su un singolo fragmentum .
Ci pare che la sestina Rvf 80 costituisca un caso esemplare di molte delle tendenze di fondo fin qui reperite. A cominciare dalla propensione cosí tipicamente petrarchesca a lasciare le rive in cui è appena approdato per cercare nuovi orizzonti, spostare, respingere i limiti per riprendere la navigazione allo scopo d’esplorare nuovi paesaggi mentali ed espressivi. Vediamo nel caso presente come il Petrarca si allontani dalla tradizione o, per meglio dire, da quello ch’è solo un abbozzo di tradizione, tale tuttavia per opera e merito suo, essendosi egli cimentato con il genere-sestina a tre riprese soltanto prima di quella che intendiamo ora prendere in esame,89 in gara con due unici predecessori, autori d’un solo componimento ciascuno: il grande Arnaldo e la figura edipica di Dante. Arnaldo cui sembra alluda il capoverso ( Chi è fermato di menar sua vita , da mettere a confronto con Lo ferm voler qu’el cor m’intra ); Dante onnipresente in particolare nell’ asperitas (alquanto temperata, a dire il vero) cui è improntato il componimento, ma anche per il significato della navigazione (che è anche riconducibile al tipo ulisseo) qui evocata.90
È, per l’appunto, il testo che rompe sul piano tematico con la mini-tradizione della sestina (che dice l’irretimento nei lacci dell’amore disperato, labirinto senza uscita formalmente tradotto, quasi visualizzato attraverso la retrogradatio cruciata ), introducendo nei Rerum vulgarium fragmenta il motivo dell’esilio come cifra assoluta della condizione umana (quarta occorrenza del lessema dopo 21 [10], 37 [37], 45 [7], ma prima con tale significato).91 Si tratta ora di dire l’inquietudine insanabile dell’esilio- peregrinatio , dell’errare che ci fa passare da punti sempre uguali, sempre diversi,92 senz’altro esito che quello dell’invocazione finale d’un aiuto esterno (divino). Testo dunque che in maniera particolarmente netta segna una svolta, se non una rottura, inaugurando a poca distanza dalla canzone 70 detta degli incipit (o meglio dei versi cum auctoritate , la sua propria, del Petrarca – auctoritas – compresa) un nuovo corso nell’andamento della raccolta, che vale congedo dato alle auctoritates in gioco. Riprendendo, qui anche nella strutturazione giudiziaria del discorso, la tonalità giudicante che informa i fragmenta fin dal primo di essi.
Qualche altra rapida considerazione ancora. Se guardiamo ai verbi, in particolare ai loro aspetti, ci accorgiamo che le frontiere esterne del testo (delimitate dalla protasi, al presente di verità universale, seguito dall’ottativo, un ottativo che diventa la preghiera scettica dell’ultima stanza: in un presente dell’enunciazione che dice l’insanabile smarrimento; preghiera vera e propria nel congedo) iscrivono il suo tempo entro l’inizio – nel passato – della navigatio -exilio e il futuro dell’approdo finale. Costatiamo che i verbi «perfettivi» coniugati ai tempi «incompiuti» (semplici) sono resi «compiuti» dal «poi» dei vv. 4 delle strofe 2 e 3; dopodiché, con un «poi» al v. 28 che cambia completamente segno, il regime delle stanze 3 e 5 è quello dell’incompiuto che si protrae nell’attrettanto «incompiuto» ( i.e. tuttora in corso) del presente dell’enunciazione. E per quanto riguarda gli «imperfettivi», l’unico della serie che non rinvii (se non metaforicamente) alla soggettività, agli stati interiori (vedere, credere, sperare, temere, e anche sospirare e ardere), è il concreto «errare» del v. 14 (messo in straordinario rilievo dal rigetto),93 che, nonostante un primo intervento divino che lo allontana dagli scogli, continua come auspicato viaggio verso il porto ultimo, sigillo di un «exilio» che trascende tutto il tempo della storia individuale narrata.
Per la lingua, ora, un paio di riflessioni rapidissime. Oltre alla presenza di Guittone,94 si ravvede (ovviamente, vien fatto di dire) quella di Dante.95 In quanto al piano prettamente linguistico (fonetico, morfologico, sintattico), lasciamo agli specialisti il compito di determinare quanto il nostro pezzo, a prima vista levigatissimo, si discosti o meno dalle caratteristiche medie del sostrato primigenio.96 Sul piano semantico (lessemi portanti delle parole-rima in particolare), il ritorno del medesimo potenzia il gioco della variatio , cifra della peregrinatio attaverso i varî significati di ognuno dei significanti.97 Anche il sistema allitterativo, particolarmente denso, va incluso nel campo della riflessione.98
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