Sorge una prima domanda, relativa alla funzione del sostrato tosco-fiorentino della lingua petrarchesca costatato dagli specialisti.40 Non può bastare, ovviamente, una spiegazione fondata sulla lingua d’uso nell’ambiente familiare in cui crebbe il piccolo Francesco – la sua lingua poetica non è riconducibile a quella degli «usi pratici».41 Lingua che comunque non è quella che il Petrarca parlava ad Avignone o a Valchiusa, né in Italia, dove, a parte i soggiorni a Roma o Napoli (lontano da Firenze), il suo tropismo era settentrionale e lo spingeva in terra lombarda o veneta ( inter Alpes et Apenninum , l’ipotesi privilegiata come approdo della sua navigatio intorno al 1353, anno della partenza definitiva dalla Francia).42 Ma un simile sostrato (tosco-fiorentino), perché essenzialmente la tradizione poetica cui attinge, pur radicata nell’ humus provenzale ( Triumphus Cupidinis IV, 40–55), saltando in sostanza i precursori siculi («fur già primi», ora sono «da sezzo», come recitano i vv. 35–36), è tosco-fiorentino («siculo-toscani» compresi, se è vero che «Guitton d’Arezzo» nel corteo dei poeti d’amore segue immediatamente Dante e «Cin da Pistoia»: si veda ibid ., vv. 31–33; e anche Rvf 287 [all’esule Sennuccio, per la sua dipartita], vv. 10–11, dove l’ordine è però rovesciato).43 Ed è, sul terreno volgare, proprio Guittone che, insieme con il Dante «petroso» e, piú ancora, quello della Commedia ,44 gli consente di mollare, anzi di rompere gli ormeggi che avrebbero potuto tenerlo ancorato alla piccola patria della tradizione lirica sboccata nel cosiddetto Stil novo (dolce, solo dolce, e leggiadro), epigoni compresi (Sennuccio e, per quel pochissimo che se ne può sapere, Franceschino).45 Ma si è premunito contro tale rischio, per l’appunto, coltivando la vocazione alla peregrinatio […].46
Ciò che di piú saldo resta della ormai contestata tesi continiana della «fiorentinità trascendentale» (eco del correlativo «autobiografismo trascendentale») è probabilmente il rilievo che riguarda la «misura per nulla trascurabile di defiorentinizzazione» di tale lingua.47 In termini piú semplici, il Petrarca rifiuta recisamente l’assimilazione senza piú alla lingua materna (quale madre, poi, o quale balia?), al fiorentino.48 Dall’imitazione pedissequa è sempre rifuggito, specie nelle «cose volgari», come da scogli («scopul[i]»: si noti il termine mutuato di nuovo dal linguaggio della navigazione).49 Per il servizio delle muse, esse stesse in esilio ( Africa IX),50 l’«irrequieto turista»,51 il «poeta sradicato»,52 pratica la «miscidanza»:53 ecco il paradosso di un’appropriazione che è insieme necessario e voluto distacco, di una ricettività intimamente legata alla sua condizione di esule in lingua.
Tratto distintivo dei grandi scrittori (Cicerone, Virgilio e successori), d’altronde, di quelli dalle proposte inedite, sono i mutamenti con i quali arricchiscono la lingua54 – coniando parole nuove,55 imbastendo giri inediti,56 cercando ritmi nuovi (che si allontanano dalla tradizione lirica),57 sottoponendo il tutto a uno smanioso processo di ripresa e revisione.
Ambivalenza, allora, di quest’esilio volontario in lingua, rivendicato come tale, ma con accessi di nostalgia. In realtà, vige una stabile instabilità ricercata del sistema,58 che contempla la possibilità di nostalgici ritorni al fiorentino.59 La cifra che ne consegue, si sa, è il «vario stile», annunciato (ed esibito) nel sonetto proemiale dei Rerum vulgarium fragmenta , con le sue molteplici dimensioni. Ulisse rappresenta sia (in concorrenza con Enea) la forza (anzitutto d’animo, volontà indefessa d’andare avanti, in mezzo alle contrade [in]esplorate, spesso tempestose) sia, contemporaneamente, la fragilità (della condizione umana, in balia delle onde di una pericolosa navigatio ).60 L’esperimentazione poetica ne rende conto tramite il «debile stile» mutuato dal flebile carmen dell’Ovidio pontico, il suo stile « incultus »,61 le «lappole et stecchi co la falce adunca» di Rvf 166, 8, fino allo «stile stancho e frale» di 354, 2.
Se ci rifacciamo poi alla dimensione temporale accennata sopra, l’esilio è tempo transitorio tra due mete: dapprima quelle constituite da nascita e morte. Ma anche, frattalmente, tra la seconda nascita al mondo del 6 aprile 132762 e il termine indeterminato della morte dell’io (che dovrebbe coincidere, finendo l’esilio terrestre, con la fine dell’altro esilio, la lontananza da Laura, essa stessa figurata numerose volte vita natural durante dagli allontanamenti episodici; intervallo di tempo all’interno del quale si staglia il tempo che intercorre tra l’incontro primitivo (come si parla di scena primitiva) e la scomparsa dell’amata (6 aprile 1348).63 Gli allontanamenti episodici cui accennavamo costituiscono altrettanti numerosi exilii , altri intervalli di tempo, in cui il cor , come abbiamo già visto sopra, si pasce «di memoria e di speme» ( Rvf 331, 1 astrofa). Perfino la modalità del futuro anteriore (o, variante, l’ipotesi della realtà al futuro, ma un futuro remoto) consente di proiettarsi in un tempo avvenire, in realtà mai avvenuto, in cui sarebbe data la possibilità di tornare indietro con il ricordo, verso il passato.64 Il tempo, insomma, non cessa di generare di queste frontiere: e da una data frontiera, ci si allontana, quando all’altra ci si avvicina.65
Donde anche l’onnipresenza del tempo sospeso, intervallato, del presente durativo: di un’esperienza dell’immobile mobilità, degli stati transitorî, come della memoria e dei suoi grumi di tempo rappreso. Cosí come si sottolinea il carattere durativo e iterativo (l’«incompiuto» per eccellenza, secondo i grammatici) del gerundio tanto amato dal Petrarca.66 I tempi verbali dall’aspetto per l’appunto «incompiuto» essendo inesorabilmente calamitati dal presente (altrettanto «incompiuto») della memoria (della sua durativa atemporalità) all’interno della quale viene ad alloggiarsi. Tra memoria futuri e memoria del passato, sospensione al «punto senza estensione» del presente.67 Ciò, in sintonia con l’osservazione secondo la quale il poeta, sul piano semantico dominante, quello di sostantivi e aggettivi,68 «si è chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti alla mutabilità della storia».69
La rammemorazione (attraverso la parola) apre la possibilità di esiliarsi dal presente, segnato indelebilmente dal difetto (di Laura, di Roma: di essere); sostituendolo con il presente di un piano ontologico altro, coincidente con il presente dell’enunciazione, è anch’essa un peregrinare nella lontananza, da un isolotto memoriale a un altro.70 Lacerti mnestici, pezzi di tempo psichico momentaneamente eternati, frammenti immobilizzati, fissati nel momento in cui stanno riaffiorando, ubbidendo alla logica del ritorno degli istanti dilatati.71 Agli antipodi di ogni realismo referenziale, abbiamo a che fare con una temporalità dell’ entre-deux tipica delle situazioni d’esilio (anche metaforicamente concepito),72 ch’è spazio aperto per il ricordo di ciò ch’aveva indotto oblío:73 la dialettica già avvistata sul piano propriamente spaziale, in campo geografico, diventa quindi quella dello spazio che si fa tempo, come quando la distanza percorsa dall’aura si fa indice e misura del periodo trascorso nell’assenza.74 E ciò è fonte di piacere,75 che si nutre fin dall’inizio del paradosso d’un esilio ch’è un avvicinarsi ( Rvf 209, 1–8):
I dolci colli ov’io lasciai me stesso,
partendo onde partir già mai non posso,
mi vanno innanzi et èmmi, ognor adosso
quel caro peso ch’Amor m’à commesso.
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