Dante Alighieri - La Divina Commedia di Dante Alighieri

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La Divina Commedia di Dante Alighieri: краткое содержание, описание и аннотация

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La Divina Comedìa è un poema allegorico di Dante Alighieri, scritto in terzine incatenate di endecasillabi in lingua volgare fiorentina. Il poema è diviso in tre parti, chiamate «cantiche» (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali composta da 33 canti formati da un numero variabile di versi, fra 115 e 160, strutturati in terzine. Il poeta narra di un viaggio immaginario, ovvero di un Itinerarium mentis in Deum, attraverso i tre regni ultraterreni che lo condurrà fino alla visione della Trinità. La sua rappresentazione immaginaria e allegorica dell'oltretomba cristiano è un culmine della visione medievale del mondo sviluppatasi nella Chiesa cattolica.

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ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo”.

Poi si rivolse per la strada lorda,

e non fé motto a noi, ma fé sembiante

d’omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li è davante;

e noi movemmo i piedi inver’ la terra,

sicuri appresso le parole sante.

Dentro li ‘ntrammo sanz’alcuna guerra;

e io, ch’avea di riguardar disio

la condizion che tal fortezza serra,

com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;

e veggio ad ogne man grande campagna

piena di duolo e di tormento rio.

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,

sì com’a Pola, presso del Carnaro

ch’Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,

così facevan quivi d’ogne parte,

salvo che ‘l modo v’era più amaro;

ché tra gli avelli fiamme erano sparte,

per le quali eran sì del tutto accesi,

che ferro più non chiede verun’arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,

e fuor n’uscivan sì duri lamenti,

che ben parean di miseri e d’offesi.

E io: “Maestro, quai son quelle genti

che, seppellite dentro da quell’arche,

si fan sentir coi sospiri dolenti?”.

Ed elli a me: “Qui son li eresiarche

con lor seguaci, d’ogne setta, e molto

più che non credi son le tombe carche.

Simile qui con simile è sepolto,

e i monimenti son più e men caldi”.

E poi ch’a la man destra si fu vòlto,

passammo tra i martiri e li alti spaldi.

Inferno: Canto X

Ora sen va per un secreto calle,

tra ‘l muro de la terra e li martìri,

lo mio maestro, e io dopo le spalle.

“O virtù somma, che per li empi giri

mi volvi”, cominciai, “com’a te piace,

parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace

potrebbesi veder? già son levati

tutt’i coperchi, e nessun guardia face”.

E quelli a me: “Tutti saran serrati

quando di Iosafàt qui torneranno

coi corpi che là sù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno

con Epicuro tutti suoi seguaci,

che l’anima col corpo morta fanno.

Però a la dimanda che mi faci

quinc’entro satisfatto sarà tosto,

e al disio ancor che tu mi taci”.

E io: “Buon duca, non tegno riposto

a te mio cuor se non per dicer poco,

e tu m’hai non pur mo a ciò disposto”.

“O Tosco che per la città del foco

vivo ten vai così parlando onesto,

piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto

di quella nobil patria natio

a la qual forse fui troppo molesto”.

Subitamente questo suono uscìo

d’una de l’arche; però m’accostai,

temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai?

Vedi là Farinata che s’è dritto:

da la cintola in sù tutto ‘l vedrai”.

Io avea già il mio viso nel suo fitto;

ed el s’ergea col petto e con la fronte

com’avesse l’inferno a gran dispitto.

E l’animose man del duca e pronte

mi pinser tra le sepulture a lui,

dicendo: “Le parole tue sien conte”.

Com’io al piè de la sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,

mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”.

Io ch’era d’ubidir disideroso,

non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;

ond’ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: “Fieramente furo avversi

a me e a miei primi e a mia parte,

sì che per due fiate li dispersi”.

“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”,

rispuos’io lui, “l’una e l’altra fiata;

ma i vostri non appreser ben quell’arte”.

Allor surse a la vista scoperchiata

un’ombra, lungo questa, infino al mento:

credo che s’era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardò, come talento

avesse di veder s’altri era meco;

e poi che ‘l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: “Se per questo cieco

carcere vai per altezza d’ingegno,

mio figlio ov’è? e perché non è teco?”.

E io a lui: “Da me stesso non vegno:

colui ch’attende là, per qui mi mena

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.

Le sue parole e ‘l modo de la pena

m’avean di costui già letto il nome;

però fu la risposta così piena.

Di subito drizzato gridò: “Come?

dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?

non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”.

Quando s’accorse d’alcuna dimora

ch’io facea dinanzi a la risposta,

supin ricadde e più non parve fora.

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta

restato m’era, non mutò aspetto,

né mosse collo, né piegò sua costa:

e sé continuando al primo detto,

“S’elli han quell’arte”, disse, “male appresa,

ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa

la faccia de la donna che qui regge,

che tu saprai quanto quell’arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,

dimmi: perché quel popolo è sì empio

incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”.

Ond’io a lui: “Lo strazio e ‘l grande scempio

che fece l’Arbia colorata in rosso,

tal orazion fa far nel nostro tempio”.

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,

“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo

sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu’ io solo, là dove sofferto

fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,

colui che la difesi a viso aperto”.

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,

prega’ io lui, “solvetemi quel nodo

che qui ha ‘nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo,

dinanzi quel che ‘l tempo seco adduce,

e nel presente tenete altro modo”.

“Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,

le cose”, disse, “che ne son lontano;

cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s’appressano o son, tutto è vano

nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,

nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta

fia nostra conoscenza da quel punto

che del futuro fia chiusa la porta”.

Allor, come di mia colpa compunto,

dissi: “Or direte dunque a quel caduto

che ‘l suo nato è co’vivi ancor congiunto;

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,

fate i saper che ‘l fei perché pensava

già ne l’error che m’avete soluto”.

E già ‘l maestro mio mi richiamava;

per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio

che mi dicesse chi con lu’ istava.

Dissemi: “Qui con più di mille giaccio:

qua dentro è ‘l secondo Federico,

e ‘l Cardinale; e de li altri mi taccio”.

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico

poeta volsi i passi, ripensando

a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,

mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”.

E io li sodisfeci al suo dimando.

“La mente tua conservi quel ch’udito

hai contra te”, mi comandò quel saggio.

“E ora attendi qui”, e drizzò ‘l dito:

“quando sarai dinanzi al dolce raggio

di quella il cui bell’occhio tutto vede,

da lei saprai di tua vita il viaggio”.

Appresso mosse a man sinistra il piede:

lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo

per un sentier ch’a una valle fiede,

che ‘nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

Inferno: Canto XI

In su l’estremità d’un’alta ripa

che facevan gran pietre rotte in cerchio

venimmo sopra più crudele stipa;

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