Ai piedi della scala si presentava un corridoio illuminato elettricamente. All’estremità di questo corridoio s’apriva una porta, che Cyrus Smith spinse.
Una sala riccamente ornata, che i coloni attraversarono rapidamente, dava in una biblioteca, nella quale un soffitto luminoso versava un torrente di luce.
In fondo alla biblioteca una grande porta, ugualmente chiusa, fu aperta dall’ingegnere.
Un vasto salone, specie di museo, ov’erano accumulate, con tutti i tesori della natura minerale, opere d’arte e meraviglie dell’industria, apparve agli occhi dei coloni, che dovettero credersi trasportati, per virtù di magia, nel mondo dei sogni.
Disteso su di un ricco divano, videro un uomo che non parve accorgersi della loro presenza.
Allora Cyrus Smith alzò la voce e, fra la più grande sorpresa dei suoi compagni, pronunciò queste parole:
«Capitano Nemo, ci avete chiamati? Siamo qui!»
CAPITOLO XVI
IL CAPITANO NEMO «LE SUE PRIME PAROLE» LA STORIA DI UN EROE DELL’INDIPENDENZA «L’ODIO PER GLI INVASORI» I SUOI COMPAGNI «LA VITA SOTTOMARINA» SOLO «L’ULTIMO RIFUGIO DEL «NAUTILUS» ALL’ISOLA DI LINCOLN» IL GENIO MISTERIOSO DELL’ISOLA
A QUELLE parole, l’uomo sdraiato si sollevò e il suo viso apparve in piena luce: testa magnifica, fronte alta, sguardo fiero, barba bianca, capigliatura abbondante e gettata all’indietro.
Quell’uomo s’appoggiò con la mano sulla spalliera del divano da cui s’era appena alzato. Il suo sguardo era calmo. Si vedeva che una malattia lenta l’aveva minato a poco a poco; però la sua voce sembrò forte ancora, quando disse in inglese, e con tono ch’esprimeva un’estrema sorpresa:
«Io non ho nome, signore.»
«Io vi conosco!» rispose Cyrus Smith.
Il capitano Nemo fissò uno sguardo ardente sull’ingegnere, come se avesse voluto annientarlo.
Poi, ricadendo sui cuscini del divano:
«Che cosa importa, dopo tutto,» mormorò «sto per morire! Cyrus Smith s’avvicinò al capitano Nemo e Gedeon Spilett gli prese la mano, che trovò ardente. Ayrton, Pencroff, Harbert e Nab si tenevano rispettosamente in disparte, in un angolo del magnifico salone, saturo di emanazioni elettriche.»
Il capitano Nemo ritrasse tosto la sua mano e con un segno pregò l’ingegnere e il giornalista di sedersi.
Tutti lo guardavano con profonda emozione. Era dunque là, dinanzi a loro, colui che essi chiamavano il «genio dell’isola», l’essere potente il cui intervento era stato, in tante circostanze, così efficace; il benefattore cui dovevano tanta riconoscenza! Innanzi ai loro occhi non c’era che un uomo, laddove Pencroff e Nab credevano di trovare quasi un dio, ed era vicino a morire!
Ma come poteva Cyrus Smith conoscere il capitano Nemo? Perché questi si era così vivacemente alzato sentendo pronunciare il suo nome, che doveva credere ignorato da tutti?…
Il capitano aveva ripreso posto sul divano e, appoggiato su di un braccio, guardava l’ingegnere, che gli era vicino.
«Voi sapete il nome ch’io ho portato, signore?» domandò.
«Lo so,» rispose Cyrus Smith «come so il nome di questo mirabile apparecchio sottomarino…»
«Il Nautilus?» disse con un mezzo sorriso il capitano.
«Il Nautilus.»
«Ma sapete… sapete chi sono?»
«Lo so.»
«Eppure, già da trent’anni non ho più nessuna comunicazione col mondo abitato, già da trent’anni vivo nelle profondità del mare, il solo luogo dove io abbia trovato la libertà! Chi, dunque, ha potuto tradire il mio segreto?»
«Un uomo che non aveva mai preso nessun impegno verso di voi, capitano Nemo, e che, per conseguenza, non può essere accusato di tradimento.»
«Quel francese, che il caso mi gettò a bordo sedici anni or sono?»
«Precisamente.»
«Quell’uomo e i suoi due compagni non sono, dunque, periti nel maelström, in cui il Nautilus s’era cacciato?»
«Non sono periti, ed è uscita, sotto il titolo di Ventimila leghe sotto i mari, un’opera che narra la vostra storia.»
«La mia storia di alcuni mesi soltanto, signore!» rispose vivacemente il capitano.
«È vero,» riprese Cyrus Smith «ma alcuni mesi di questa strana vita sono bastati a farvi conoscere…»
«Come un grande colpevole, senza dubbio!» interruppe il capitano Nemo, sulle cui labbra passò un sorriso altero. «Sì, un ribelle, messo, forse, al bando dall’umanità!»
L’ingegnere non rispose.
«Ebbene, signore?»
«Io non ho il diritto di giudicare il capitano Nemo,» rispose Cyrus
Smith» almeno per quél che riguarda la sua vita passata. Ignoro, come tutti,»
quali siano stati i moventi di questa sua strana esistenza e non posso giudicare gli effetti senza conoscere le cause; ma so soltanto che una mano benefica s’è costantemente tesa su di noi dal nostro arrivo all’isola di Lincoln; so che noi tutti dobbiamo la vita a un essere buono, generoso, potente, e che questo essere potente, generoso e buono siete voi, capitano Nemo!
«Sono io» rispose semplicemente il capitano.
L’ingegnere e il giornalista s’erano alzati. 1 loro compagni s’erano avvicinati e la riconoscenza che traboccava dai loro cuori stava per manifestarsi con i gesti, con le parole…
Ma il capitano Nemo li trattenne con un gesto, e con voce certamente più commossa di quanto avrebbe voluto:
«Quando mi avrete udito» disse. (Nota: La storia del capitano Nemo è stata pubblicata col titolo di Ventimila leghe sotto i mari. Vale qui la stessa osservazione che abbiamo fatta sulle avventure di Ayrton riguardo alla discordanza di alcune date. Preghiamo il lettore di rileggere la nota pubblicata in proposito a pag. 305. (Avvertenza dell’Editore all’edizione originale francese). Fine nota)
E il capitano, in poche frasi concise e affrettate, fece conoscere tutta la sua vita.
La narrazione fu breve e, ciò nonostante, dovette concentrare in sé tutto quel che gli rimaneva d’energia per giungere alla fine. Si vedeva che lottava contro una straordinaria debolezza. Più volte Cyrus Smith lo pregò di riposarsi, ma egli scrollò il capo da uomo a cui il domani più non appartiene e quando il cronista gli offrì le sue cure:
«È inutile,» rispose «le mie ore sono contate.»
Il capitano Nemo era un indiano, il principe Dakkar, figlio d’un ragià del territorio allora indipendente del Bundelkund e nipote dell’eroe dell’India, Tippo Saib. Suo padre, all’età di dieci anni, lo mandò in Europa, perché vi ricevesse un’educazione completa e con la segreta speranza che potesse un giorno lottare, ad armi eguali, contro coloro ch’egli considerava come gli oppressori del proprio Paese.
Dai dieci ai trent’anni, il principe Dakkar, dotato di un’anima superiore, grande di cuore e d’intelletto, si formò una vastissima, completa cultura e nelle scienze, nelle lettere, nelle arti spinse i suoi studi molto in alto e lontano.
Il principe Dakkar viaggiò per tutta l’Europa. La nobiltà delle sue origini e la sua ricchezza lo facevano ricercare da tutti, ma le seduzioni del mondo non l’attirarono mai. Giovane e bello, egli rimase serio, malinconico, divorato dalla sete del sapere, ed esacerbato da un implacabile risentimento.
Il principe Dakkar odiava. Odiava il solo Paese in cui non aveva mai voluto metter piede, la sola nazione di cui rifiutò costantemente le profferte: odiava l’Inghilterra e tanto più l’odiava in quanto, sotto certi aspetti, era costretto ad ammirarla.
Gli è che quest’indiano riassumeva in sé tutti i fieri rancori del vinto contro il vincitore. L’invasore non aveva potuto trovar grazia presso l’invaso. Il figlio d’uno di quei sovrani, di cui il Regno Unito ha potuto assicurarsi soltanto nominalmente la soggezione, questo principe, della famiglia di Tippo Saib, allevato nelle idee di rivendicazione e di vendetta, innamorato del suo poetico Paese, gravato di catene inglesi, non volle mai posare il piede sulla terra, per lui maledetta, alla quale l’India doveva il suo servaggio.
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