Guido Pagliarino - Il Giudice E Le Streghe
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Talmente ero rimasto sicuro del gravissimo pericolo della stregoneria che, tempo dopo, nel 1525, avevo pubblicato un Tractatus de Sortilegis quale documentazione e ammonimento. Questâopera aveva accresciuto, ahimè! la mia buona fama presso l'Inquisizione papale monastica.
Una cosa però devo aggiungere, in nome della verità : non ho inteso, manifestando doglianza, che sempre i fenomeni diabolici fossero e siano mera apparenza. Anzi, io in persona, agghiacciato, assistetti una volta a un fatto di possessione indubitabile, che più avanti narrerò; e di sicuro un processo, di cui pure dirò, vide imputati dei verissimi servi di satana. Sono ormai certo tuttavia che, per la maggiore parte, streghe e stregoni non furono tali e, dunque, che errai quasi ogni volta.
Capitolo II
Il dubbio cominciò a nascere cinque anni dopo la pubblicazione del mio tomo.
Era il secondo pomeriggio d'una tepida giornata di fine inverno, ormai quasi al tramonto. Tornando a casa, al mio solito a piedi, m'ero soffermato nel gran mercato di alimenti e tessuti che occupa tutta la piazza del tribunale. Era quella l'ora in cui le bancarelle smobilitano e si può trovare cibo a minor prezzo. Comprata una bella pollastrina viva, che mâero fatta uccidere, me la conducevo verso casa pendula innanzi, tenendola per le zampe nel pugno destro, mentre nel sinistro stringevo, come sempre quando incedevo, l'elsa della mia spada. Intendevo apparire, come ogni volta, fiero e potente nonostante l'imbarazzo di quel pennuto; e debitamente ognuno m'aveva fatto ala e tanto di cappello, sia sulla piazza sia nel resto della via; salvo... Ebbene, un infante sconosciuto, ero ormai quasi a la porta della mia dimora, non s'era scansato! Anzi, mâaveva urtato ed era corso via senza chiedere venia nonostante un mio offeso: âPoffarre!â; di più, quandâera ormai di molte braccia lontano confuso nella folla, avevo dovuto subire lâonta vile dâuna certissima pernacchia. Solo poi avrei compreso ch'era stato quello un segno del Cielo contro la mia superbia e, fors'anche, della visita che, di lì a poco, avrei ricevuto; ma al momento, mâero illividito.
Una volta a casa, un appartamento nei pressi del tribunale dove abitavo solo e con un solo servitore, dismessa lâira col bagnarmi la testa dâacqua fredda, raccomandai al servo l'attenta cottura arrosto della pollastrina. Non era stagione, altrimenti avrei comandato di friggerla nel sugo di quel novissimo frutto che alcuni chiamano il pomo di oro 1ma in realtà , quando giustamente maturo, è rosso inferno, tanto che, come mi era stato riferito mesi prima da una spia, il popolino, ben inteso quando sa di non essere udito, usa chiamare quello splendido piatto âer pollo a la dimoniaâ1 ma i demonologi, subito da me interpellati, assaggiato quel cibo con assoluto scrupolo, ripetutamente, avevano concluso che in quell'ottima pietanza il maligno non aveva dimora e che ogni cristiano poteva mangiarne senza peccato, purché non con gola.
M'ero appena infilato a mio comodo entro la veste da camera e, assiso sulla scranna del mio studio, attendendo il desinare m'accingevo a riprendere una tralasciata lettura de LâOrlando Furioso, quando bussarono all'uscio.
Il servitore m'annunciò la visita dell'avvocato Gianfrancesco Ponzinibio. Era questi il malfamato autore d'un trattato contro la caccia alle streghe, stampato una decina d'anni prima, che io non avevo letto ma conoscevo dai veementi attacchi del teologo Bartolomeo Spina, domenicano gran cacciatore di maligne, contenuti nella sua Quaestio de Strigibus, pubblicata un biennio dopo quellâempio tomo. Le critiche del monaco molto avevano posto a rischio lo sciocco avvocato, anche perché lo Spina era importante e ascoltato funzionario del Medici da Milano che, proprio in quel 1523, era stato eletto papa col nome di Clemente VII e che lâaveva presto levato a cardinale e, dopo non molto, a Grande Inquisitore.
Va ora detto che io non ero più un inesperto magistrato ma tutto ormai, quale Giudice Generale, mi stava sottoposto nel tribunale di Roma, poi che anchâio ero aumentato, tre anni prima, nella stima di Clemente. Infatti, durante il gran sacco dell'Urbe attivato dagli Imperiali nel 1527, mâero adoperato, a rischio della vita, per porre a salvamento i documenti dei processi in corso e di quanto possibile dei passati. Proprio per questo mio potere nel tribunale, come avrei inteso, il Ponzinibio s'era rivolto a me. Ciò aveva osato perché, ormai, egli era forte della protezione di un altro domenicano, l'austero monsignor Gabriele Micheli, ventiseienne soltanto ma assai dotto, potente e stimatissimo nell'Urbe.
Per rispetto al vescovo, che oltretutto già allora godeva fama di santo, ricevetti il Ponzinibio.
Nel suo trattato l'avvocato aveva negato la realtà dei sabba e delle cavalcate volanti e condannato lo strumento della tortura per le confessioni. Ebbene, pare incredibile ma, non appena dopo i saluti, senz'altri convenevoli, egli esordì: "Persino lei, Signoria, confesserebbe d'essere uno stregone se le martoriassero i testicoli con tenaglie roventi!"
Me ne indignai massimamente: come osava parlarmi così, senza cortesi preamboli, senza il dovuto rispetto, senza perifrasi? Tenaglie roventi a me?! "Sappia per certo, mio dotto signore", gli risposi scuro in volto, ma non senza cortesia nella voce e senza affatto scompormi, "che molte streghe confessano non solo senza avere subito tortura, ma non avendone ancora ricevuto la minaccia." Avevo esagerato, perché solo Elvira s'era comportata in tal modo; ma rammentavo l'assoluta conferma che aveva saputo dare alla mia, peraltro già sicura, coscienza.
"Se permette, dottissimo giudice", continuò il vagheggione come se neppure avesse udito, "andrò indietro di secoli, perché meglio possa capire."
Una nuova impertinenza! Ebbi l'impulso di farlo cacciare dal mio servitore; ma pensando alla nobile figura del suo protettore, mi trattenei.
"Andiamo all'inizio del decimo secolo", proseguì, a un manoscritto del monaco Regino di Prüm, oggi a mani del saggio padre monsignor Micheli, cioè alla trascrizione del Canon Episcopi, a sua volta di molti secoli precedente."
"Il Canon Episcopi?" feci eco, cominciando a prendere interesse: "Dei primi secoli della Chiesa?"
"Sì. Potrà leggerlo presso il suo attuale possessore, del quale io sono qui messaggero; ma intanto, se permette, gliene farò accenno."
L'avevo sino ad allora tenuto in piedi, sulla porta del mio studio. Avendolo saputo ambasciatore di tanto protettore, ed essendomi ormai incuriosito, lo feci accomodare e mi accomodai.
"Magia e stregoneria", continuò non appena sedutosi, "seguono la storia dell'uomo, da ben prima del Cristianesimo. Riti stregoneschi son descritti nell'antica letteratura, come in Apuleio, or novamente oggetto di lettura e studio da parte di letterati distinti; e la scoperta inoltre e l'indagine su vecchissimi testi, quali l'Hermetica e la Cabala, da parte del Ficino, del Pico della Mirandola..."
L'interruppi, di nuovo infastidito: "Mio sapiente signore, queste cose sono vere, ahinoi! e ben note anche a poveri insipienti come questo Giudice Generale che pazientemente la sta ascoltando; ma esse di più portano, semmai, a vegliare e a difendersi. Certamente il demonio è attivo in tutta la storia! Pensa di dirmi qualcosa di nuovo? e crede non sappia, ad esempio, dellâantichissima strega di Endor, che predisse la sventura al re Saul?" aggiunsi a mostra del mio sapere, citando il primo caso che mi era venuto alla mente; e, storcendo all'ingiù la bocca, lo fissai negli occhi onde fargli abbassare lo sguardo; ma egli non l'abbassò affatto, e mi sorrise; poi chinò la testa assentendo come a scusarsi e, subito levatala, riprese: "Mi perdoni, mio giudice, ma voleva essere solo un'innocente premessa. Non dubitavo affatto del suo sapere."
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