Jack Mars - Assassino Zero

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“Non andrai a dormire finché non avrai finito di leggere i libri dell'AGENTE ZERO. I personaggi, magistralmente sviluppati e molto divertenti, sono il punto di forza di questo lavoro superbo. La descrizione delle scene d'azione ci trasporta nella loro realtà; sembrerà di essere seduti in un cinema 3D dotato dei migliori simulatori di realtà virtuale (sarebbe un incredibile film di Hollywood). Non vedo l'ora che venga pubblicato il seguito”.
–-Roberto Mattos, Books and Movie Reviews
Un misterioso attacco con un'arma ad ultrasuoni sembra presagire l'inizio di qualcosa di terribile; l'agente Zero inizia una caccia all'uomo per evitare che il mondo venga distrutto.
L'agente Zero, dopo aver scoperto dell'impeachment del Presidente e dopo aver appreso che sua figlia Sara è in pericolo, vuole ritirarsi dal servizio e riunire la sua famiglia. Ma il destino ha in serbo dell'altro per lui. Quando la sicurezza del mondo viene minacciata, Zero non può fare altro che tornare sul campo.
Nel frattempo, gli tornano alla memoria nuovi ricordi, e con essi nuovi importanti segreti. L'Agente Zero potrebbe riuscire a salvare il mondo, ma potrebbe non essere in grado di salvarsi da sé stesso questa volta.
ASSASSINO ZERO (Book # 7) è un thriller di spionaggio che ti terrà con il fiato sospeso fino a notte fonda. Il libro n. 8 della serie AGENTE ZERO sarà presto disponibile.
“Un thriller fantastico”.
–-Midwest Book Review
“Uno dei migliori thriller che ho letto quest'anno”.

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Si accigliò per la sensazione che lo attraversava. Era insolito che la musica elettronica suonata nella discoteca vicino si sentisse attraverso i muri, ma avrebbe potuto giurare di averla udita.

Non l’ho sentita , realizzò, l’ho percepita. Sentì uno strano brontolio nel corpo, difficile da identificare e ancora più difficile da descrivere, al punto che sul momento la imputò ai bassi emessi dalle casse troppo potenti del club della porta accanto. La sua compagna dai capelli rossi aprì gli occhi e il suo viso assunse un'espressione preoccupata. L'aveva sentito anche lei.

Improvvisamente l'intero club cambiò, o sembrò che lo facesse, quando un'ondata di vertigini si abbatté su Alvaro. Inciampò da un lato, riprendendo l'equilibrio solo un secondo prima di cadere. La ragazza americana non fu così fortunata e cadde. A uno a uno i musicisti della band smisero di suonare, e Alvaro poté sentire le grida spaventate degli avventori di La Piedra, accompagnate dal debole battito del basso dalla porta accanto.

Qualunque cosa fosse, l'avevano sentita tutti.

Improvvisamente si sentì assalito da un forte mal di testa e da una sensazione di nausea. Alvaro guardò bruscamente alla sua sinistra in tempo per vedere Luisa cadere dietro il bancone.

Luisa!

Riuscì a fare due passi prima che le vertigini si facessero sentire nuovamente, facendolo inciampare contro un tavolo. Mentre si ribaltava, del vetro si schiantò sul pavimento. Una donna urlò, ma Alvaro non riuscì a determinare dove si trovasse.

Cadde in ginocchio e strisciò, determinato a trovare Luisa. Doveva portarle fuori di lì, a costo di trascinarle entrambe per tutto il locale. Ma quando poi alzò lo sguardo, tutto ciò che riuscì a vedere furono sagome sfocate. La sua vista si offuscò. I suoni nel locale in preda al panico svanirono, sostituiti da un solo rumore acuto. I colori vibranti di La Piedra si attenuarono, gli angoli più nascosti diventarono marroni e poi neri, e Alvaro si lasciò cadere sul pavimento, stordito e incapace di sentire altro che quel rumore prima di perdere conoscenza.

CAPITOLO QUATTRO

Jonathan Rutledge non voleva alzarsi dal letto.

Per essere onesti, era un letto fantastico. Era un letto regale, sebbene, rifletté in quelle prime ore del mattino, forse sarebbe stato più appropriato chiamarlo presidenziale.

Si girò sbadigliando e istintivamente allungò la mano verso lo spazio vuoto accanto a lui. Strano, pensò, come rimanesse sempre dalla sua parte del letto anche quando Deidre era fuori città. Rimase sbalordito dalla rapidità con cui aveva preso la sua nuova posizione; al momento stava viaggiando nel Midwest, facendo contatti per finanziare programmi di arte e musica nelle scuole pubbliche, mentre lui spingeva ulteriormente la sua faccia in un cuscino come se potesse soffocare il suono che sapeva sarebbe arrivato da un momento all'altro.

E mentre faceva ciò, il telefono vicino a lui suonò di nuovo.

“No”, si disse. Era il giorno del ringraziamento. Le uniche cose sul suo programma erano graziare un tacchino, fare alcune foto con le sue figlie e poi godersi un buon pasto privato con loro. Perché lo stavano disturbando all'alba di un giorno di vacanza?

Un forte bussare alla porta lo fece sussultare. Rutledge si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi e disse ad alta voce: “Sì?”

“Signor presidente”. Una voce femminile lo chiamò attraverso la spessa porta della suite padronale della Casa Bianca. “Sono Tabby. Posso entrare?”

Era Tabitha Halpern, il suo capo di stato maggiore. Se si presentava così presto, questo significava che non portava notizie buone, né tantomeno un caffè.

“Se proprio devi”, mormorò.

“Signore?” Non l'aveva sentito.

“Vieni, Tabby”.

La porta si aprì e la Halpern entrò; indossava un elegante tailleur blu scuro con una camicetta bianca. Fece due passi verso di lui e poi si fermò altrettanto all'improvviso, lanciando lo sguardo sul tappeto, visibilmente a disagio di fronte al presidente sdraiato sul letto in pigiama di seta.

“Signore”, gli disse, “c'è stato un… incidente. È necessario che si presenti nella Stanza delle Decisioni”.

Rutledge si accigliò. “Che tipo di incidente?”

Per un attimo, la donna esitò prima di rispondere. “Un sospetto attacco terroristico all’Avana”.

“Il giorno del ringraziamento?”

“È successo a tarda notte, ma… tecnicamente sì, signore”.

Rutledge scosse la testa. Che tipo di perversi potevano aver pianificato un attacco durante un giorno di festa? A meno che…” Tabby, Cuba celebra il Ringraziamento?”

“Signore?”

“Non importa. C'è tempo per un caffè?”

Lei annuì. “Gliene farò arrivare uno immediatamente”.

“Fantastico. Dì loro che sarò lì tra venti minuti”.

Tabby si girò sui tacchi e uscì dalla camera da letto, chiudendo la porta dietro di sé e lasciando Rutledge a brontolare sottovoce per l'ingiustizia della situazione. Alla fine, si alzò, stiracchiandosi e gemendo di nuovo e chiedendosi, per quella che doveva essere stata la diecimillesima volta, come si fosse trovato a vivere alla Casa Bianca.

La risposta tecnica era semplice. Cinque settimane prima, Rutledge era il presidente della Camera, un presidente della Camera davvero bravo, anche se non spettava a lui dirlo. Durante la sua carriera politica aveva guadagnato la reputazione di politico incorruttibile, fedele al suo codice morale e fermo nelle sue convinzioni.

Poi era arrivata la notizia del coinvolgimento dell'ex presidente Harris con i russi e del loro piano di annettere l'Ucraina. Con le prove incontrovertibili della registrazione di un interprete, le procedure di impeachment erano andate vertiginosamente in fretta. Quindi, a pochi minuti dalla mezzanotte prima della definitiva espulsione di Harris, il presidente, per ottenere una pena ridotta, aveva dichiarato il coinvolgimento del suo vicepresidente. Il vicepresidente Brown si era piegato come una sedia da giardino, non potendo in alcun modo negare di essere stato a conoscenza del coinvolgimento di Harris con Kozlovsky e i russi.

Era successo tutto in un giorno. Prima ancora che Rutledge avesse finito di leggere la trascrizione della testimonianza di Brown, l'impeachment di Harris fu approvato dal Senato e il vicepresidente si dimise con un processo in corso. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il terzo uomo nella gerarchia del potere, il Presidente della Camera democratico Jonathan Rutledge, avrebbe preso posto nello Studio Ovale.

Lui non lo voleva. Pensava che guidare la Camera sarebbe stato l'apice della sua carriera; non aveva mai aspirato ad andare oltre. E avrebbe potuto dire quelle tre piccole parole che avrebbero fatto la differenza, “rifiuto l'incarico”, ma così facendo avrebbe deluso tutto il suo partito. Il presidente Pro Tempore del Senato era un repubblicano del Texas, all'estrema destra nello spettro politico per quanto fosse possibile in un sistema democratico.

E così Rutledge divenne il Presidente Rutledge. Il suo prossimo passo sarebbe stato nominare un vicepresidente e far votare il Congresso, ma erano passate quattro settimane dal suo insediamento e non lo aveva ancora fatto, nonostante le crescenti pressioni e le numerose critiche. Era una decisione molto importante, e dopo quello che avevano fatto le ultime due amministrazioni, non c'erano molte persone a voler ancora ambire a quel ruolo. Aveva in mente qualcuno, la senatrice della California, Joanna Barkley, ma dall'inizio del suo mandato la situazione era stata tumultuosa, e aveva l'impressione che polemiche e critiche lo attendessero ad ogni angolo.

Ogni giorno gli venivano date motivazioni sufficienti per voler desistere. Ed era profondamente consapevole di poterlo fare; Rutledge avrebbe potuto nominare Barkley come suo vicepresidente, ottenere il voto di approvazione dal Congresso e quindi dimettersi, facendo di Barkley la prima donna presidente degli Stati Uniti. Avrebbe potuto giustificarlo con il vortice di eventi che avevano caratterizzato l'inizio del suo mandato. Sarebbe stato lodato, immaginava, per aver portato una donna alla Casa Bianca.

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