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Maya aprì la porta scorrevole in vetro sul retro dell’appartamento, indossò una felpa con cappuccio e sfidò l'aria fredda della notte. La casa non aveva un cortile, ma aveva un piccolo patio con un tavolo tozzo e due sedie.
Suo padre era seduto lì, sorseggiava da un bicchiere una bevanda di colore ambrato. Maya si sedette con lui, notando quanto fosse chiara la notte.
“Sara dorme?” chiese.
Maya annuì. “Sonnecchia sul divano”.
“Lo fa spesso recentemente”, disse, con espressione preoccupata. “Dorme molto”.
Lei forzò una leggera risata. “Ha sempre dormito molto. Non mi preoccuperei per questo”. Poi indicò il bicchiere con un cenno. “Birra?”
“Tè freddo”. Sorrise lui imbarazzato. “Da quando sono tornato al lavoro non bevo”.
“E come va?”
“Non male”, ammise. “Ultimamente non ho svolto nessun incarico sul campo, mi prendo cura di Sara e mi rimetto in forma”.
“Stavo per dirlo, si vede che hai perso peso. Stai molto meglio di… “
Dell'ultima volta in cui ti ho visto , stava per dire Maya, ma si interruppe, perché non voleva rievocare il ricordo di quella visita, quando aveva portato Greg a casa, si era arrabbiata, aveva perso il controllo, aveva abbandonato Greg lì e aveva detto a suo padre che non avrebbe mai più voluto vederlo.
“Grazie”, disse lui in fretta, chiaramente pensando lo stesso. “E la scuola sta andando bene?”
Gliel'aveva già detto così prima, a cena, ma sembrava che non le credesse del tutto, e Maya ricordò a sé stessa che parte del suo lavoro era la capacità di capire le persone. Era inutile mentirgli, ma ciò non significava che lei dovesse dirgli tutto.
“Preferisco non parlare della scuola”, gli disse chiaramente. Non voleva parlare di come talvolta sparissero degli oggetti dal suo armadietto. O del fatto che i ragazzi le gridassero parole poco gentili. O della sensazione che fosse soltanto l'inizio del tormento, e che più cercava di ignorarli, più i ragazzi di West Point sarebbero stati aggressivi.
“Giusto”. Suo padre si schiarì la gola. “Uhm, c'è qualcosa di cui vorrei parlare però. Avrei dovuto chiedertelo prima. Maria non ha un posto in cui andare domani, e non mi sembrava giusto…”
“Non preoccuparti, papà”. Maya sorrise al suo imbarazzante tentativo di chiederle il permesso. “Certo che non mi dispiace, e non devi chiedermi il permesso”.
Lui fece spallucce. “Si, hai ragione. È solo che sei così grande ora. Entrambe siete cresciute così tanto. Mi sono perso alcune parti importanti della vostra vita”.
Maya annuì leggermente, sebbene non sentisse il bisogno di aggiungere altro. Poi cambiò argomento. “È bello ciò che stai facendo per Sara. La stai aiutando. Sembra che ne abbia davvero bisogno”.
Questa volta fu suo padre ad annuire leggermente, fissando il vuoto. “Farei tutto il possibile per lei”, disse malinconicamente. “Ma temo che potrebbe non essere abbastanza”.
“Che intendi dire?”
Zero bevve un sorso di tè freddo prima di spiegare. “La scorsa settimana siamo andati a cena, solo noi due, in un ristorante in centro. È stato bello. Abbiamo parlato. Sembrava tutto a posto. Quando è arrivato il conto, ho pagato con una banconota da cento dollari. E lì qualcosa è scattato; come un'ombra le ha attraversato gli occhi. L'ho vista guardare i soldi, poi la porta e …”
Suo padre tacque, ma Maya non aveva bisogno che spiegasse ulteriormente. Ora capiva le parole di Sara; aveva davvero pensato di prendere i soldi e scappare. Non sarebbe andata lontano con solo un centinaio di dollari, ma probabilmente stava pensando a brevissimo termine. Voleva farsi una dose il prima possibile.
“Sicuramente te ne sei accorta”, continuò suo padre, “l'appartamento è un po' spoglio. Non l'ho decorato con molte cose, perché…”
Perché temi che potrebbe rubarle. Impegnarle. Scappare di nuovo. La CIA non lo aveva mandato da nessuna parte nel tempo in cui Sara aveva vissuto con lui, ma prima o poi lo avrebbe fatto, e a quel punto cosa sarebbe successo? Sara sarebbe rimasta semplicemente seduta ad aspettare il suo ritorno? O avrebbe cercato di fuggire, abbandonata a sé stessa e ai demoni del suo passato?
“È molto peggio di quanto pensassi”, mormorò Maya. Quindi, risolutamente e senza pensarci due volte, aggiunse: “Rimarrò qui”.
“Che cosa?”
Lei annuì. “Rimango qui. Mancano solo tre settimane alle vacanze di Natale. Posso recuperare il lavoro. Starò qui durante le vacanze, tornerò a New York dopo Capodanno”.
“No”, le disse Zero con fermezza. “Assolutamente no…”
“Ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di supporto”. Maya non era sicura di quale tipo di aiuto o supporto potesse offrire a sua sorella, ma avrebbe avuto il tempo di capirlo. “Non preoccuparti. Me ne occupo io”.
“Non è compito tuo”. Suo padre si chinò e cercò la sua mano. Lei quasi sussultò, ma poi le sue dita si chiusero attorno alle sue. “Apprezzo l'offerta. Sono sicuro che anche Sara lo farebbe.
Ma hai degli obiettivi. Hai un sogno nel cassetto. Hai lavorato duramente per raggiungerlo e devi continuare a perseguirlo”.
Maya sbatté le palpebre, un po' sorpresa. Suo padre non aveva mai mostrato di sostenere il suo desiderio di entrare a far parte della CIA e di diventare l'agente più giovane della storia. In effetti, aveva spesso tentato di dissuaderla, ma lei era irremovibile.
Lui sorrise, sembrando cogliere la sua sorpresa. “Non fraintendermi. Non mi piace comunque. Ma ora sei grande; è la tua vita. È giusto che sia tu a scegliere”.
Lei ricambiò il sorriso. Era cambiato. E forse dopo tutto c'era la possibilità di tornare a quello che erano una volta. Ma prima bisognava aiutare Sara.
“Penso”, disse piano, “che Sara potrebbe aver bisogno di più aiuto rispetto a quello che possiamo darle. Penso che potrebbe aver bisogno di un aiuto professionale”.
Suo padre annuì come se lo sapesse già, come se avesse già pensato la stessa cosa ma sentisse il bisogno di sentirselo dire da qualcun altro. Lei gli strinse delicatamente la mano per rassicurarlo, e poi rimasero in silenzio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe successo, ma per il momento tutto ciò che contava era che fossero a casa.
Chiunque abbia definito New York “la città che non dorme mai” non è mai stato nella vecchia Avana , rifletté Alvaro mentre si dirigeva verso il porto e il Malecón. Alla luce del giorno, l’Avana vecchia era una bellissima parte della città, una ricca miscela di storia e arte, gastronomia e cultura, ma le strade erano piene di traffico e dei rumori dei cantieri per i vari progetti di restauro volti a riportare i quartieri storici all'antico splendore.
Ma di notte… era di notte che la città mostrava i suoi veri colori. Le luci, i profumi, la musica, le risate: e il Malecón era il posto migliore. Le strette stradine che circondavano Calle 23, dove abitava Alvaro, erano abbastanza vivaci, ma la maggior parte dei bar cubani chiudevano a mezzanotte. Tuttavia, vicino al porto i locali notturni rimanevano aperti, il volume della musica era sempre più alto e l'alcol scorreva copioso in molti bar e locali.
Il Malecón era un'ampia strada che si estendeva per otto chilometri lungo i confini dell'Avana, fiancheggiata da strutture dipinte di verde e rosa corallo. Molti dei locali tendevano a snobbarla a causa dei numerosi turisti, ma questa era una delle molte ragioni per cui Alvaro ne era attratto; nonostante i sempre più numerosi (e irritanti) locali in stile europeo, c'era ancora una manciata di posti in cui un ritmo di salsa resisteva alla musica elettronica proveniente dagli edifici vicini.
Tra la popolazione locale vigeva un detto secondo cui Cuba fosse l'unico posto al mondo in cui bisognasse pagare i musicisti per non suonare, e questo era certamente vero durante il giorno. Sembrava che ogni persona che possedesse una chitarra o una tromba o un set di bonghi avesse aperto un negozio all'angolo di una strada, e in ogni isolato la musica accompagnava il rombo delle macchine edili e il suono dei clacson delle macchine. Ma la notte era una storia diversa, specialmente sul Malecón; la musica dal vivo andava diminuendo, stava perdendo la battaglia contro la musica elettronica, o peggio, stava soccombendo a qualunque hit pop importata dagli Stati Uniti.
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