«È finita», dissi. «Non pensiamoci più, per stasera».
Mi aspettavo che Edward annuisse, ma restò in silenzio.
«Edward?».
Chiuse gli occhi e toccò la mia fronte con la sua. «Ha ragione Jacob», sussurrò. «Che diavolo mi passa per la testa?».
«Invece no». Cercai di restare impassibile agli occhi dei tanti amici che ci guardavano. «Jacob ha troppi pregiudizi per essere imparziale».
Edward mormorò qualcosa che somigliava a un « avrei dovuto farmi uccidere, per aver pensato...».
«Smettila», ribattei, secca. Presi il suo volto fra le mani e aspettai che aprisse gli occhi. «Tu e io. Questo è tutto ciò che importa. L’unica cosa a cui hai il permesso di pensare. Hai sentito?».
«Sì», sospirò.
«Dimentica l’apparizione di Jacob». Io potevo farcela. Dovevo farcela. «Fallo per me. Prometti che lascerai perdere».
Mi guardò negli occhi per un istante prima di rispondere. «Promesso».
«Grazie. Edward, io non ho paura».
«Io sì», sussurrò.
«No, per favore». Allora sorrisi. «A proposito, ti amo».
Rispose abbozzando un sorriso. «È il motivo per cui siamo qui».
«Stai monopolizzando la sposa», disse Emmett, che spuntò alle spalle di Edward. «Fammi ballare con la mia sorellina. Potrebbe essere l’ultima occasione per farla arrossire». Scoppiò nella sua solita risata fragorosa, indifferente alle situazioni serie.
A quanto pareva, c’erano un sacco di persone con le quali non avevo ancora ballato e ciò mi diede l’occasione di ricompormi e ritrovare l’equilibrio. Quando Edward tornò a reclamarmi, il cassetto-Jacob era chiuso e inaccessibile. Appena fui fra le sue braccia, riuscii a ridar vita alla sensazione gioiosa di poco prima, alla certezza che quella sera ogni dettaglio della mia vita fosse a posto. Sorrisi e posai la testa contro il suo petto. Mi abbracciò più forte.
«Potrei anche abituarmici», dissi.
«Non dirmi che hai superato i tuoi pregiudizi sul ballo».
«Ballare non è così male... con te. Più che altro pensavo una cosa», e mi strinsi a lui ancora di più, «che non ti dovrò mai abbandonare».
«No, mai più», promise e si chinò a baciarmi.
Fu un bacio di quelli seri, intenso, lento, che cresceva pian piano...
Mi ero praticamente dimenticata dove fossi, quando udii Alice: «Bella! È ora!».
Ebbi un breve moto di irritazione verso la mia nuova sorella che ci aveva interrotti.
Edward la ignorò; sentivo le sue labbra serrate alle mie, più impazienti di prima. Il mio cuore iniziò a correre e il palmo delle mie mani scivolò sul suo collo marmoreo.
«Non vorrai perdere l’aereo?», domandò Alice, ormai al mio fianco. «Chissà che bella luna di miele, accampati in aeroporto ad aspettare il prossimo volo».
Edward si voltò appena per mormorare: «Vattene, Alice». Poi tornò a premere le labbra sulle mie.
«Bella, non vorrai salire sull’aereo vestita così?», insistette lei.
Non le badai granché. Anzi, in quel momento non m’importava.
Alice soffocò un ruggito. «Le dirò dove la porti, Edward. Perciò aiutami, faccio sul serio».
Lui restò impietrito. Poi alzò la testa e guardò in cagnesco la sua sorella preferita. «Per essere così piccola, sei un fastidio gigantesco».
«Non ho scelto l’abito da viaggio più perfetto per sprecarlo», ribatté lei, prendendomi per mano. «Vieni con me, Bella».
Cercai di resisterle, mentre mi alzavo in punta di piedi per baciarlo ancora una volta. Lei mi diede uno strattone impaziente, trascinandomi via da lui. Qualcuno degli ospiti ridacchiò. A quel punto gettai la spugna e mi lasciai guidare dentro la casa vuota.
Alice sembrava irritata.
«Scusa», dissi.
«Non è colpa tua, Bella». Sospirò. «A quanto pare non sei in grado di fare da sola».
Sorrisi della sua espressione afflitta e lei mi guardò torva.
«Grazie, Alice. È stato il matrimonio più meraviglioso che ci sia mai stato», le dissi sincera. «È andato tutto liscio. Sei la sorella più brava, più in gamba, più talentuosa del mondo».
Questo servì a placarla e si aprì in un grande sorriso. «Sono contenta che ti sia piaciuto».
Renée ed Esme ci aspettavano al piano di sopra. In tre mi aiutarono a uscire dal vestito e a entrare nel completo blu scuro che Alice aveva scelto per il viaggio. Fu un sollievo quando qualcuno mi tolse le forcine dai capelli, lasciandoli liberi sulle spalle, ondulati per via delle trecce, e risparmiandomi un mal di testa da fermagli. Mia madre non smise un attimo di piangere.
«Ti chiamo quando avrò capito dove vado», le promisi mentre la salutavo con un abbraccio. Il segreto della meta probabilmente la faceva impazzire: mia madre odiava i segreti... se non ne era a parte.
«Appena si allontana te lo dico», si fece beffe di me Alice, ridendo della mia espressione ferita: non era giusto che fossi l’ultima a saperlo.
«Devi venire a trovare me e Phil presto, il più presto possibile. Tocca a te venire al sud, in pieno sole, una volta tanto», disse Renée.
«Oggi non è piovuto», le ricordai, sviando la risposta.
«Per miracolo».
«È tutto pronto», disse Alice. «Le valigie sono in macchina. Jasper è andato a prenderla». Mi spinse verso le scale mentre Renée mi seguiva e tentava ancora di abbracciarmi.
«Ti voglio bene, mamma», sussurrai mentre scendevamo. «Sono davvero contenta che tu abbia Phil. Abbiate cura di voi».
«Anch’io ti voglio bene, tesoro mio».
«Ci vediamo, mamma. Ti voglio bene», ripetei con un nodo in gola.
Edward mi aspettava ai piedi dello scalone. Presi la mano che mi offriva ma rimasi a distanza, a osservare la piccola folla pronta a salutarci.
«Papà?», chiesi mentre lo cercavo con gli occhi.
«Da questa parte», mormorò Edward. Mi trascinò fra gli ospiti e la folla si divise per lasciarci passare. Trovammo Charlie appoggiato alla parete, lontano da tutti, quasi volesse nascondersi. Gli occhi arrossati ne spiegavano il motivo.
«Oh, papà!».
Lo abbracciai mentre altre lacrime scorrevano. Mi diede un buffetto sulla schiena.
«Vai, vai. Non vorrai perdere l’aereo».
Era difficile parlare di sentimenti con lui. Ci somigliavamo troppo: cercavamo sempre un appiglio nei dettagli più banali pur di evitare imbarazzanti dimostrazioni d’affetto. Ma non era il momento di essere impacciati.
«Ti vorrò bene per sempre, papà», dissi. «Non dimenticarlo».
«Nemmeno tu, Bells. Te ne ho sempre voluto e sempre te ne vorrò».
Ci scambiammo un bacio sulla guancia.
«Chiamami», disse.
«Presto», risposi, conscia che era tutto quello che potevo promettere. Soltanto una telefonata. A mio padre e mia madre non sarebbe più stato permesso vedermi: mi avrebbero trovata troppo diversa e molto, molto più pericolosa.
«Dai, muoviti», disse burbero. «Non fare tardi».
Passammo di nuovo fra due ali di ospiti. Edward mi strinse a sé mentre ci preparavamo a evadere.
«Sei pronta?», domandò.
«Sì», risposi e sapevo che era la verità.
Tutti applaudirono quando Edward mi baciò sulla porta di casa. Poi corremmo verso l’auto mentre si scatenava la tempesta di riso. Per lo più riuscimmo a schivare i colpi, ma qualcuno, probabilmente Emmett, lanciò con precisione impeccabile e i chicchi che rimbalzavano sulla schiena di Edward finirono addosso a me.
L’auto era decorata con altri festoni floreali e al paraurti posteriore erano attaccate con lunghi nastri una dozzina di scarpe: tutte firmate e a prima vista nuove di zecca.
Edward mi riparò dal riso mentre salivo in auto, poi si sedette accanto a me e partimmo, fra i saluti dal finestrino e i «Vi voglio bene» urlati verso la veranda, dalla quale le mie famiglie rispondevano sbracciandosi.
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