Stephenie Meyer - Twilight

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Twilight: краткое содержание, описание и аннотация

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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Durante il weekend la pioggia cadde leggera e silenziosa, e dormii sempre tranquilla.

Il lunedì mattina successivo, i ragazzi che incontravo nel parcheggio della scuola mi salutavano. Non ricordavo i loro nomi, ma restituivo i saluti e sorridevo a tutti. Faceva più freddo, ma per fortuna non pioveva. Durante la lezione di inglese, Mike si sedette accanto a me, come al solito. A sorpresa, il professore ci diede un questionario su Cime tempestose. Era elementare, molto facile.

Tutto sommato, fin lì mi sentivo molto più a mio agio del previsto. Più di quanto mi sarei mai aspettata prima di trasferirmi.

Quando uscimmo dall’aula, vedemmo volteggiare per aria qualcosa di bianco. Sentivo gli altri schiamazzare e lanciarsi gridolini allegri. Il vento mi frustava le guance e il naso.

«Ehi», esclamò Mike, «nevica».

Osservavo i batuffoli ammassarsi piano lungo il marciapiede, fluttuare lungo traiettorie imprevedibili davanti al mio naso.

«Oh». La neve. Fine della bella giornata.

Lui sembrava sorpreso. «Non ti piace la neve?».

«No. Vuol dire che fa troppo freddo per piovere». Ovvio. «E poi, pensavo venisse giù a fiocchi più piccoli. Hai presente, ognuno diverso dagli altri e tutto il resto. Questi sembrano palle di cotone».

«Non hai mai visto la neve?», chiese lui, incredulo.

«Certo che sì», attesi un istante, «in televisione».

Mike rise. Subito dopo, una grossa e viscida palla di neve si abbatté sulla sua nuca. Ci voltammo entrambi per vedere da dove venisse. Avevo qualche sospetto su Eric, che si stava allontanando nella direzione opposta a quella dell’aula in cui sarebbe dovuto andare. Mike la pensava allo stesso modo. Si piegò e iniziò a fare una palla con quella poltiglia bianca.

«Ci vediamo a pranzo, ok?». Parlavo continuando a camminare. «Quando qualcuno inizia a tirare roba umida, io mi rifugio al coperto».

Lui annuì solamente, gli occhi già fissi sulla sagoma di Eric che si allontanava.

Per l’intera mattinata non si fece altro che parlare della neve: a quanto pareva, era la prima nevicata dell’anno. Io stavo zitta. Certo, era meno umida della pioggia... finché non ti si scioglieva nelle calze.

Dopo la lezione di spagnolo entrai in mensa assieme a Jessica, con circospezione. Volavano palle dappertutto. Tenevo in mano una cartellina, da usare come scudo, se necessario. Jessica pensava stessi scherzando, ma qualcosa nella mia espressione la trattenne dal tirarmi lei stessa una palla addosso.

Mike ci raggiunse all’entrata, con il sorriso sulle labbra e le punte dei capelli ghiacciate. Mentre facevamo la fila per il cibo, lui e Jessica parlavano animatamente della battaglia appena finita. La forza dell’abitudine mi fece dare un’occhiata al solito tavolo nell’angolo. E rimasi di sasso. Erano in cinque.

Jessica mi tirò per un braccio.

«Pronto? Bella? Tu cosa prendi?».

Fissavo il pavimento, avevo le orecchie bollenti. Ripetevo a me stessa che non c’era motivo di sentirmi in colpa. Non avevo fatto niente di male.

«Cos’ha Bella?», chiese Mike a Jessica.

«Niente», risposi. «Oggi prendo soltanto una soda». E li raggiunsi in fondo alla fila.

«Non hai fame?», chiese Jessica.

«A dir la verità, non mi sento tanto bene», dissi, sempre con lo sguardo basso.

Aspettai che prendessero da mangiare e li seguii fino al tavolo, guardandomi le punte dei piedi.

Sorseggiai la soda piano piano, mi brontolava lo stomaco. Mike mi domandò due volte, inutilmente preoccupato, come stessi. Gli risposi che non era niente, ma intanto mi chiedevo se invece non fosse il caso di andare avanti a fingere e passare l’ora successiva in infermeria.

Ridicolo. Non dovevo mica scappare.

Decisi di concedermi uno sguardo al tavolo dei Cullen. Se avessi incrociato i suoi occhi che mi fissavano con ira, avrei saltato biologia, codarda com’ero.

Sempre a testa bassa, sbirciai di sottecchi. Nessuno di loro era voltato dalla mia parte. Alzai un po’ la testa.

Ridevano. Edward, Jasper ed Emmett avevano i capelli pieni di neve. Alice e Rosalie cercavano di tenersi lontane da Emmett che si scrollava la chioma davanti a loro. Si stavano godendo la giornata come chiunque altro. Loro, però, rispetto a noi, sembravano usciti da un film.

A parte le risate e i giochi, tuttavia, c’era qualcosa di diverso, e a prima vista non riuscii a capire cosa. Osservai Edward con più attenzione. Notai che era meno pallido - probabilmente per reazione alla neve fredda - e le occhiaie erano molto meno evidenti. Ma c’era qualcos’altro. Continuai a scrutarlo, meditando e cercando di isolare ciò che era cambiato.

«Bella, cosa stai guardando?», disse Jessica interrompendo la mia riflessione e cercando di seguire il mio sguardo.

In quel preciso istante, gli occhi di Edward guizzarono come lampi e incontrarono i miei.

Chinai di colpo la testa tra le mani, lasciando che i capelli mi nascondessero il viso. Eppure, nell’istante in cui i nostri occhi si erano incrociati ero sicura che la sua espressione non fosse dura o sprezzante, come nell’ultima occasione in cui l’avevo visto. Sembrava soltanto curioso, e in qualche modo insoddisfatto.

«Edward Cullen ti sta fissando», bisbigliò Jessica, con un sorrisetto.

«Non sembra arrabbiato, vero?», non potei fare a meno di chiedere.

«No», disse lei, apparentemente confusa dalla mia domanda. «Dovrebbe esserlo?».

«Penso di non piacergli», confidai. Mi sentivo ancora le gambe molli. Poggiai la testa sul braccio.

«Ai Cullen non piace nessuno... be’, non fanno proprio granché caso agli altri per considerarli. Ma lui continua a fissarti».

«Smettila di guardarlo», sibilai io.

A malincuore, Jessica distolse lo sguardo. Alzai la testa quel tanto che bastava per verificarlo, pronta a usarle violenza se si fosse rifiutata.

In quel momento Mike ci interruppe, stava progettando un’epica battaglia a palle di neve nel parcheggio dopo le lezioni e voleva che ci unissimo anche noi. Jessica accettò con entusiasmo. A giudicare da come guardava Mike, si poteva star certi che avrebbe accettato qualsiasi invito proveniente da lui. Io rimasi in silenzio. Mi sarebbe toccato nascondermi in palestra finché il parcheggio non si fosse svuotato.

Per il resto del pranzo feci molta attenzione a non spostare lo sguardo dal mio tavolo. Decisi di onorare la scommessa che avevo fatto con me stessa. Dal momento che non si mostrava arrabbiato, non avrei saltato biologia. Il mio stomaco sobbalzò impaurito al pensiero di sedersi di nuovo accanto a lui.

Non avevo molta voglia di farmi accompagnare in classe da Mike come al solito - a quanto pare era uno dei bersagli preferiti dai cecchini delle palle di neve - ma all’uscita, tutti, tranne me, alzarono all’unisono un lamento di delusione. Pioveva, e l’acqua lavava via ogni traccia di neve trasformandola in rivoli ghiacciati e trasparenti che correvano lungo il bordo del marciapiede. Io mi alzai il cappuccio, segretamente soddisfatta. Dopo la lezione di ginnastica avrei potuto tornare subito a casa.

Lungo tutto il percorso fino all’edificio 4, Mike non fece che lamentarsi.

Una volta in classe, mi accorsi con sollievo che il mio tavolo era vuoto. Il professor Banner camminava per la stanza e distribuiva a ogni tavolo un microscopio e una scatola di vetrini. La lezione sarebbe cominciata di lì a qualche minuto, e nell’aula regnava un vivace chiacchiericcio. Non osavo guardare verso la porta, e scarabocchiavo sulla copertina del quaderno.

Sentii chiaramente quando la sedia accanto alla mia si mosse, ma tenni gli occhi ben concentrati sui miei disegni.

«Ciao», disse una voce bassa, melodiosa.

Io alzai gli occhi, sbalordita dal fatto che si stesse rivolgendo proprio a me. Era seduto al banco il più lontano possibile, ma la seggiola era voltata nella mia direzione. I suoi capelli erano fradici, spettinati, ma anche conciato in quel modo sembrava appena uscito dalla pubblicità di un gel. Il suo viso splendente era amichevole, luminoso, con l’ombra di un sorriso sulle labbra perfette. Lo sguardo però esprimeva cautela.

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