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Stephenie Meyer: Twilight

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Stephenie Meyer Twilight

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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Stava discutendo con lei, con un tono di voce basso, seducente. Riuscii a captare l’argomento della discussione. Stava cercando di spostare biologia a un altro orario, qualsiasi altro orario.

Non potevo credere che fosse a causa mia. Doveva esserci qualche altra ragione, qualcosa successo prima che io entrassi in aula. Il suo atteggiamento doveva avere un motivo totalmente diverso. Era impossibile che quello sconosciuto potesse odiarmi in maniera tanto improvvisa e intensa.

La porta si riaprì, e il vento freddo che immediatamente invase la stanza sfiorò i documenti sulla scrivania e mi scompigliò i capelli sul viso. La ragazza che era entrata si allungò semplicemente verso il banco, depositò un foglio in un cestino e uscì di nuovo. Ma Edward Cullen si irrigidì e lentamente si voltò per fulminarmi - il suo viso era di una bellezza assurda - con uno sguardo penetrante, pieno d’odio. Per un istante provai un brivido di vera paura, sulle braccia mi venne la pelle d’oca. Lo sguardo non durò che un secondo, ma mi gelò più del vento freddo. Edward tornò a rivolgersi alla segretaria.

«Non fa niente», disse svelto, con la sua voce vellutata. «Mi rendo conto che è impossibile. Molte grazie lo stesso». Girò i tacchi senza degnarmi di altre attenzioni e si dileguò dalla stanza.

Io mi avvicinai timida al banco, pallida, per una volta, anziché rossa di timidezza, e consegnai il modulo con le firme.

«Com’è andato il primo giorno, cara?», chiese la segretaria con aria materna.

«Bene», mentii, a mezza voce. La donna non sembrò convinta.

Tornai al mio pick-up, uno degli ultimi mezzi rimasti nel parcheggio. Era un porto sicuro, la cosa più simile a una casa che avessi, in quel buco verde e umido. Per un po’ rimasi immobile sul sedile a fissare il parabrezza. Ma dopo qualche minuto iniziò a fare freddo e per accendere il riscaldamento mi toccò avviare il motore, che partì con un rombo. Tornai a casa di Charlie, sforzandomi per tutto il tragitto di non piangere.

2

Libro aperto

Il giorno dopo andò meglio... e peggio.

Andò meglio perché quando uscii di casa, malgrado le nuvole dense e opache, ancora non pioveva. Ed ero più rilassata, perché sapevo cosa aspettarmi dalla giornata. Mike si sedette accanto a me durante l’ora di inglese e mi accompagnò alla lezione successiva, sotto lo sguardo infastidito di Eric il secchione. Ne fui lusingata. Quasi nessuno mi squadrava più come il primo giorno. A pranzo mi sedetti al tavolo di una compagnia numerosa che includeva Mike, Eric, Jessica e altri ragazzi di cui infine ricordavo i volti e i nomi. Non mi sembrava più di affogare: ora camminavo sulle acque.

Andò peggio perché ero stanca: nemmeno quella notte ero riuscita a dormire a causa del rumore del vento che risuonava in casa. Peggio ancora perché il professor Varner mi fece una domanda di trigonometria senza che io avessi alzato la mano e diedi la risposta sbagliata. Il punto più basso fu quando mi toccò giocare a pallavolo e l’unica volta in cui non riuscii a evitare la palla colpii sulla testa una mia compagna di squadra. La cosa peggiore in assoluto, però, era che Edward Cullen non si era presentato a scuola.

Per tutta la mattina fui terrorizzata al pensiero di incontrare lui e i suoi sguardi bizzarri all’ora di pranzo. Una parte di me desiderava andare a chiedergli quale fosse il problema. Sdraiata a letto, insonne, avevo anche pensato alle parole da dire. Ma mi conoscevo abbastanza da sapere che non avrei mai avuto il fegato di fare un passo simile. Accanto a me, il Leone Vigliacco faceva la figura di Terminator.

Quando però entrai in mensa assieme a Jessica - decisa a non perlustrare il salone in cerca di Edward, ma incapace di trattenermi - notai che i quattro strani fratelli erano seduti al solito tavolo e lui non era con loro.

Mike ci intercettò e ci fece sedere al suo tavolo. Jessica sembrava felice di quelle attenzioni, e le sue amiche ci raggiunsero al volo. Tentando di seguire il loro chiacchiericcio, però, terribilmente a disagio, me ne stavo palpitante in attesa dell’arrivo di Edward. Speravo che mi avrebbe ignorato, né più né meno, dimostrando che i miei sospetti erano immotivati.

Non arrivava, e più passava il tempo più la tensione aumentava.

Alla fine della pausa pranzo non era ancora comparso, perciò affrontai la lezione di biologia con un filo di coraggio in più. Mike, come un impeccabile cane da riporto, trottava fedele al mio fianco. Prima di entrare trattenni il respiro, ma Edward Cullen non era neppure lì. Mi rilassai e mi sedetti al tavolo. Mike mi seguì, parlando di un’imminente gita alla spiaggia. Ronzò attorno al mio posto fino al suono della campanella. Poi mi rivolse un sorriso un po’ triste e andò a sedersi vicino a una ragazza con l’apparecchio e una brutta permanente. Sembrava che tra me e Mike potesse ci fosse qualcosa, e ciò non mi tranquillizzava affatto. In una cittadina come quella, dove tutti si facevano gli affari di tutti, la diplomazia era fondamentale. Non ero mai stata una campionessa di tatto, non sapevo come comportarmi con ragazzi così sfacciatamente amichevoli.

Il tavolo era tutto per me, Edward era assente, questo era un gran sollievo. Cercai di ficcarmelo bene in testa. Ma non riuscivo a liberarmi del sospetto strisciante che il motivo della sua assenza fossi io. Era ridicolo ed egocentrico pensare che potessi avere un tale ascendente su qualcuno. Era impossibile. Eppure non riuscivo a non temere che fosse proprio così.

Infine, al termine della giornata, una volta smaltita la vergogna per l’incidente della partita di pallavolo, passai in un lampo dalla tuta ai jeans e alla felpa blu. Fuggii dallo spogliatoio femminile così in fretta da evitare che il mio cagnolino da riporto fosse già li ad aspettarmi. Attraversai svelta il parcheggio. Era affollato di studenti pronti a tornare a casa. Salii sul pickup e mi assicurai di avere tutto il necessario nello zaino.

La sera prima avevo scoperto che Charlie non sapeva cucinare granché, escluse uova fritte e pancetta. Perciò gli avevo chiesto di potermi occupare della cucina durante la mia permanenza a Forks. Fu tanto compiacente da cedermi le chiavi della sala dei banchetti. Scoprii anche che in casa non c’era niente da mangiare. Perciò avevo preparato una lista e preso un po’ di contanti dal barattolo della credenza con l’etichetta «Per la spesa». Li avevo con me, e mi diressi al supermercato più vicino.

Azionai la batteria di cannoni che avevo al posto del motore, ignorai tutte le teste che si voltarono a guardare e feci retromarcia, attenta a infilarmi senza danni nella colonna di auto in attesa di uscire dal parcheggio. Mentre aspettavo, fingendo che il rumore assordante giungesse dal motore di qualcun altro, vidi i due Cullen e i gemelli Hale salire sulla loro auto. Era la Volvo tirata a lucido. Ovvio. Non mi ero ancora accorta del loro abbigliamento, ero stata troppo catturata dai loro volti. Ora ci facevo caso: e naturalmente erano vestiti benissimo, con abiti semplici, ma probabilmente disegnati da qualche stilista. Erano di una tale avvenenza, e avevano tanto stile e portamento che avrebbero potuto cavarsela anche coperti di stracci. Sembrava un’esagerazione che quei ragazzi fossero sia belli che ricchi. Eppure, per quel che ne sapevo, il più delle volte la vita andava così. Tuttavia non pareva che il denaro gli avesse comprato la benevolenza di Forks.

No, non ero convinta. Il loro isolamento doveva essere volontario: nessuno chiuderebbe la porta in faccia a tanta bellezza.

Quando passai davanti a loro, guardarono come tutti gli altri il mio pickup rumoroso. Io fissavo la strada di fronte a me e mi rilassai soltanto dopo essermi lasciata la scuola alle spalle.

Il supermercato era poco lontano, alcuni incroci più a sud, appena fuori dall’autostrada. Era piacevole stare lì dentro: sembrava un luogo normale. A casa la spesa l’avevo sempre fatta io, e fui lieta di tornare a un’abitudine vecchia e familiare. L’edificio era abbastanza grande da impedirmi di sentire il rumore della pioggia sul tetto. Per qualche minuto dimenticai dove mi trovavo.

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