Stephenie Meyer - New Moon

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New Moon: краткое содержание, описание и аннотация

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Il giorno del diciottesimo compleanno di Isabella un piccolo incidente domestico riesce a mettere in crisi la tranquillità della sua vita in compagnia del fidanzato-vampiro Edward e della famiglia di lui: le ripercussioni sono tali da convincere la famiglia ad abbandonare la cittadina dove abitano, e Edward a lasciare Bella. La ragazza vive un lungo periodo di solitudine e tristezza, in cui taglia i ponti con le proprie amicizie e si rinchiude in se stessa, fino alla quasi casuale riapparizione nella sua vita di Jacob Black, il giovane indiano che per primo aveva fatto nascere in lei i dubbi sulla vera identità della famiglia di Edward. Più il rapporto di amicizia tra Jacob e Bella si rafforza, più lei sembra tornare alla normalità che le mancava da tempo. Ma la quiete appena ritrovata è turbata da eventi misteriosi, tra cui una strana serie di omicidi ai margini della foresta e l’apparizione di nuove, strane creature della notte.

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Non guardò né me né l’autoradio, che restò spenta mentre il silenzio fu come moltiplicato dall’improvviso rombo del motore. Edward imboccò a velocità esagerata il vialetto buio, tutto curve.

Il silenzio mi faceva impazzire.

«Di’ qualcosa», implorai infine, mentre lui svoltava verso l’autostrada.

«Cosa vuoi che dica?», chiese lui, distaccato.

Rabbrividii di fronte a tanta freddezza. «Che mi perdoni».

Sul suo volto riapparve una scintilla di vitalità: una scintilla di rabbia. «Perdonarti? Di cosa?».

«Se fossi stata più attenta non sarebbe successo niente».

«Bella, ti sei tagliata un dito con della carta... non credo che sarai condannata a morte».

«Comunque è colpa mia».

Con quella frase scatenai l’alluvione.

«Colpa tua? Se ti fossi tagliata a casa di Mike Newton, assieme a Jessica, Angela e agli altri tuoi amici normali, cosa avresti rischiato di tanto disastroso? Di non trovare le bende? Se fossi inciampata e crollata su una pila di piatti di vetro da sola, senza che qualcuno ti ci avesse scaraventato, anche in quel caso, cosa avresti rischiato? Di sporcare i sedili dell’auto mentre ti portavano al pronto soccorso? Magari Mike Newton ti avrebbe tenuta per mano mentre ti ricucivano, e sarebbe rimasto là senza essere costretto a combattere contro l’istinto di ucciderti. Non pensare che sia colpa tua, Bella. Non faresti altro che rendermi ancora più nauseato da me stesso».

«Che diavolo c’entra Mike Newton con questo discorso?».

«Mike Newton c’entra perché sarebbe molto più salutare, per te, stare con uno come lui», ruggì.

«Preferirei morire piuttosto che stare con Mike Newton», protestai. «Piuttosto che stare con chiunque non fossi tu».

«Non fare la melodrammatica, per favore».

«E allora non essere ridicolo».

Non rispose. Guardò in cagnesco la notte al di là del parabrezza, nero di rabbia.

Mi sforzai di trovare un modo per salvare la serata. Quando parcheggiò di fronte a casa mia, ero ancora a secco di idee.

Spense il motore, ma non staccò le mani dal volante.

«Resti con me stanotte?», chiesi.

«È meglio che torni a casa».

Non sopportavo l’idea che ricominciasse a crogiolarsi nel rimorso.

«È il mio compleanno».

«Non puoi fare i capricci... vuoi o no che tutti fingano di non saperlo? Delle due l’una». Parlava con decisione, ma non era più così serio. Sospirai di sollievo, in silenzio.

«Okay. Ho deciso che non voglio che tu faccia finta di niente. Ci vediamo di sopra».

Saltai giù e mi allungai a raccogliere i regali. Lui aggrottò le sopracciglia.

«Non sei obbligata a prenderli».

«Li voglio», risposi automaticamente, chiedendomi se stesse utilizzando un trucchetto psicologico per rivoltare la frittata.

«Invece no. Carlisle ed Esme hanno speso dei soldi per i tuoi regali».

«Sopravviverò». Strinsi goffa i pacchetti con il braccio buono e mi sbattei la portiera alle spalle. In meno di un secondo Edward scese dal pick-up e mi affiancò.

«Almeno lasciameli portare», disse togliendomeli di mano. «Ci vediamo in camera tua».

Sorrisi. «Grazie».

«Buon compleanno», sussurrò, chinandosi per sfiorarmi le labbra con le sue.

Mi alzai sulle punte dei piedi per prolungare il bacio, ma lui si allontanò. Sfoderò quel sorriso sghembo che era il mio preferito e scomparve nell’oscurità.

Non appena entrai in casa sentii le divagazioni del telecronista con il boato degli spettatori sullo sfondo.

«Bells?», mi chiamò Charlie.

«Ehi, papà», dissi, girato l’angolo. Tenevo il braccio attaccato al fianco. Arricciai il naso, infastidita dal bruciore della ferita. Evidentemente, l’effetto dell’anestetico stava svanendo.

«Com’è andata?». Charlie era sdraiato sul divano, con i piedi nudi appoggiati al bracciolo. Ciò che restava dei suoi capelli ricci e castani era schiacciato su una tempia.

«Alice ha esagerato. Fiori, candele, torte, regali... non mancava niente».

«Cosa ti hanno regalato?».

«Un’autoradio per il pick-up». Più qualcos’altro, ancora ignoto.

«Mica male».

«Già. Be’, io vado a dormire».

«Ci vediamo domattina».

Salutai con la mano. «Ciao ciao».

«Cos’ha il tuo braccio?».

Arrossii e imprecai tra me e me. «Sono inciampata. Niente di grave».

«Sempre la solita», sospirò e scosse la testa.

«Buonanotte, papà».

Corsi in bagno, dove custodivo la biancheria per le notti come quella. Con una smorfia di dolore per colpa dei punti che tiravano, m’infilai la canottiera e i pantaloncini di cotone coordinati, che avevo comprato per sostituire la tuta da ginnastica che di solito indossavo per dormire. Mi lavai la faccia con una mano, poi i denti, e mi precipitai in camera.

Era seduto sul letto, giocherellava con una scatola argentata.

«Ciao», disse. Sembrava triste. Si crogiolava nel suo malumore.

Mi avvicinai al letto, gli tolsi i regali di mano e mi sedetti in braccio a lui.

«Ciao». Mi raggomitolai contro il suo petto duro come pietra. «Adesso posso aprire i regali?».

«Com’è che ti è tornato l’entusiasmo?», domandò.

«Mi hai incuriosita».

Afferrai il lungo rettangolo piatto, probabilmente un dono di Carlisle ed Esme.

«Lascia fare a me», suggerì. Prese il regalo e strappò la carta argentata con un solo movimento fluido. Mi restituì una scatola bianca.

«Secondo te il coperchio riesco a sollevarlo da sola?», mormorai, ma lui fece finta di nulla.

La scatola conteneva un cartoncino oblungo, coperto di scritte. Mi ci volle un minuto per capire cosa fosse.

«Andiamo a Jacksonville?». Ne ero entusiasta, malgrado tutto. Era una prenotazione per due biglietti aerei, per me ed Edward.

«L’idea è quella».

«Non posso crederci. Renée impazzirà! Non è un problema per te, vero? C’è il sole, ti toccherà restare al chiuso tutto il giorno».

«Penso di potercela fare», rispose, ma poi si rabbuiò. «Se avessi immaginato la tua reazione a questo regalo, ti avrei chiesto di aprirlo davanti a Carlisle ed Esme. Temevo che avresti avuto da ridire».

«Be’, certo, è troppo. Ma tu verrai con me!».

Sorrise. «Adesso inizio a pentirmi di non aver speso qualche soldo per il tuo compleanno. Non credevo che potessi sfoderare tutto questo buon senso».

Riposi i biglietti e afferrai il suo regalo, piena di nuova curiosità. Me lo tolse di mano e lo scartò come l’altro.

Mi restituì una custodia senza scritte, che conteneva un compact disc argentato.

«Cos’è?», chiesi perplessa.

Non rispose; prese il CD e mi girò attorno per inserirlo nel lettore sul comodino. Premette PLAY e restammo in attesa, muti. Poi iniziò la musica.

Ascoltavo senza parole, ammaliata. Era in attesa della mia reazione, lo sapevo, ma non riuscivo ad aprire bocca. Avevo le lacrime agli occhi e tentai di ricacciarle indietro prima che iniziassero a scendere.

«Ti fa male il braccio?», domandò, ansioso.

«No, non è il braccio. È bellissimo, Edward. Non avresti potuto regalarmi niente di più prezioso. Non posso crederci». Restai in silenzio ad ascoltare.

Era la sua musica, le sue composizioni. La prima traccia del CD era la mia ninna nanna.

«Immaginavo che non mi avresti lasciato portare qui un piano per suonartela di persona», spiegò.

«Hai proprio ragione».

«Come va il braccio?».

«Benino». In realtà, sotto il bendaggio mi sentivo bruciare. Avevo bisogno di ghiaccio. Mi sarebbe bastata la sua mano, ma in quel modo mi avrebbe smascherata.

«Ti prendo un po’ di Tylenol».

«Non ce n’è bisogno», protestai, ma lui mi fece scivolare giù dalle sue ginocchia e andò verso la porta.

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