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Stephenie Meyer: New Moon

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Stephenie Meyer New Moon

New Moon: краткое содержание, описание и аннотация

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Il giorno del diciottesimo compleanno di Isabella un piccolo incidente domestico riesce a mettere in crisi la tranquillità della sua vita in compagnia del fidanzato-vampiro Edward e della famiglia di lui: le ripercussioni sono tali da convincere la famiglia ad abbandonare la cittadina dove abitano, e Edward a lasciare Bella. La ragazza vive un lungo periodo di solitudine e tristezza, in cui taglia i ponti con le proprie amicizie e si rinchiude in se stessa, fino alla quasi casuale riapparizione nella sua vita di Jacob Black, il giovane indiano che per primo aveva fatto nascere in lei i dubbi sulla vera identità della famiglia di Edward. Più il rapporto di amicizia tra Jacob e Bella si rafforza, più lei sembra tornare alla normalità che le mancava da tempo. Ma la quiete appena ritrovata è turbata da eventi misteriosi, tra cui una strana serie di omicidi ai margini della foresta e l’apparizione di nuove, strane creature della notte.

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«Fu grazie alla madre di Edward che mi decisi». La voce di Carlisle era quasi un sussurro. Fissava il vuoto, al di là della finestra scura.

«Sua madre?». Ogni volta che cercavo di parlare con Edward dei suoi genitori, rispondeva che erano morti tanto tempo fa e che ne aveva soltanto qualche ricordo sbiadito. Mi resi conto che Carlisle, per il poco che li avesse conosciuti, doveva conservarne una memoria precisa.

«Sì. Si chiamava Elizabeth. Elizabeth Masen. Il padre, Edward Senior, non riuscì a riprendere conoscenza, in ospedale. La prima ondata di influenza lo uccise. Elizabeth invece restò lucida quasi fino alla fine. Edward le somiglia molto: aveva lo stesso colore di capelli, singolarmente bronzeo, e gli occhi erano verdi, proprio come i suoi».

«Aveva gli occhi verdi?», mormorai, cercando di immaginarlo.

«Sì...». Le iridi ocra di Carlisle erano lontane un centinaio di anni. «Elizabeth si preoccupava ossessivamente del figlio. Pregiudicò le proprie speranze di sopravvivere perché si ostinava ad assisterlo dal letto in cui era ricoverata. Temevo che il primo ad andarsene potesse essere lui, le sue condizioni erano molto peggiori di quelle della madre. La fine la colse all’improvviso. Appena dopo il tramonto, ero arrivato a dare il cambio ai medici a cui spettava il turno di giorno. All’epoca era difficile fingere: il lavoro era tanto e io non avevo bisogno di riposarmi. Odiavo dover tornare a casa, nascondermi nel buio e fingere di dormire mentre tante persone morivano.

Andai subito a controllare Elizabeth e suo figlio. Mi ci ero affezionato, il che è sempre un pericolo, considerato quanto è fragile la natura umana. Capii all’istante che le condizioni di lei si erano bruscamente aggravate. La febbre era incontrollabile, il fisico troppo debilitato per continuare a combattere.

Eppure, mentre mi fissava dal letto, non sembrava debole.

“Salvalo!”, m’implorò rauca, con tutto il fiato che le era rimasto in gola.

“Farò il possibile”, fu la mia promessa, mentre le stringevo la mano. La febbre era talmente alta che probabilmente nemmeno si accorse del freddo innaturale delle mie dita. A contatto con la sua pelle, tutto sembrava freddo.

“Devi”, insistette, stringendomi la mano così forte da darmi la speranza che potesse superare la crisi. Il suo sguardo era duro, come la pietra, come lo smeraldo. “Devi fare tutto ciò che puoi. Ciò che agli altri non è consentito, ecco cosa devi fare per il mio Edward”.

Riuscì a spaventarmi. Mi fissava con quello sguardo penetrante e per un istante ebbi la certezza che avesse scoperto il mio segreto. Poi fu sopraffatta dalla febbre e non riprese più conoscenza. Un’ora dopo morì.

Da decenni meditavo sulla possibilità di crearmi un compagno. Una creatura che sapesse chi ero, e non chi fingevo di essere. Ma non avevo mai trovato una buona giustificazione per infliggere a qualcun altro ciò che io stesso avevo subito. Ed ecco Edward, nel letto, morente. Gli restavano poche ore, era evidente. Accanto a lui, sua madre, l’espressione non ancora pacificata, nemmeno nella morte».

Carlisle rivide la scena, un secolo di distanza non aveva scalfito il ricordo. Mentre parlava, immaginavo nei particolari il clima angosciante dell’ospedale, l’atmosfera opprimente di morte. Edward arso dalla febbre, la sua vita che si affievoliva a ogni rintocco dell’orologio... Sentii un altro brivido e cercai di scacciare l’immagine dalla mente.

«Non smettevo di pensare alle parole di Elizabeth. Come poteva aver capito ciò che ero in grado di fare? Possibile che augurasse al figlio un destino del genere?

Guardai Edward. Pur nella malattia, era bello. C’era qualcosa di puro e di buono nel suo volto. Il genere di viso che avrei voluto appartenesse a mio figlio...

Dopo anni di indecisione, agii d’istinto. Prima portai sua madre all’obitorio, poi tornai a prenderlo. Nessuno si accorse che respirava ancora. Non c’erano né mani né occhi a sufficienza per occuparsi di tutti i pazienti. Nell’obitorio non c’era nessuno... che fosse ancora vivo. Lo feci uscire di nascosto dal retro e passando per i tetti lo portai a casa mia.

Non sapevo bene come fare. Decisi di riprodurre le ferite che mi erano state inferte tanti secoli prima, a Londra. In seguito me ne pentii. Fu molto più doloroso e prolungato del necessario.

Eppure non mi sentivo in colpa. Né mi sono mai pentito di avere salvato Edward». Scosse la testa e tornò al presente. Mi sorrise. «Forse è meglio che ti riporti a casa».

«Ci penso io», disse Edward. Attraversò la sala da pranzo buia, a passo più lento del solito. L’espressione del viso era composta, sfuggente, ma c’era qualcosa che non andava nello sguardo: qualcosa che si sforzava di nascondere. Il mio stomaco protestò con uno spasmo.

«Posso andare con Carlisle», dissi. Mi guardai la camicia; il cotone azzurro era inzuppato e macchiato di sangue. La spalla destra incrostata di liquido rosa e denso.

«Sto bene». Edward sembrava imperturbabile. «Però devi cambiarti. Se Charlie ti vede così, gli verrà un infarto. Chiedo ad Alice di procurarti qualcosa». E sfrecciò di nuovo fuori della cucina.

Guardai Carlisle, inquieta. «È molto arrabbiato».

«Sì. Serate come questa sono ciò che teme più di ogni cosa. Vederti messa a rischio a causa della nostra natura».

«Non è colpa sua».

«Ma nemmeno tua».

Distolsi lo sguardo dai suoi occhi saggi e belli.

Carlisle mi offrì la mano e mi aiutò ad alzarmi dal tavolo. Lo seguii in salone. Esme era tornata e puliva il pavimento nel punto in cui ero caduta—con la candeggina, a giudicare dall’odore.

«Esme, lascia fare a me». Mi sentii di nuovo arrossire.

«Ho finito». Sorrise. «Come stai?».

«Bene», la rassicurai. «Carlisle è più svelto di tutti i dottori che mi hanno ricucita finora».

Ridacchiarono entrambi.

Alice ed Edward riapparvero dal retro. Alice corse svelta al mio fianco, ma Edward rimase distante, con un’espressione indecifrabile sul viso.

«Su», disse Alice. «Cerchiamo dei vestiti meno macabri».

Trovò una camicia di Esme, di un colore simile alla mia. Charlie non se ne sarebbe accorto, ne ero sicura. Il bendaggio lungo e bianco sul braccio non sembrava neanche così serio, senza macchie di sangue sui vestiti. E ormai Charlie non faceva più caso alle mie bende o ai cerotti.

«Alice», sussurrai mentre stava per uscire.

«Dimmi». Mi rispose anche lei a bassa voce e mi guardò con curiosità, il capo leggermente inclinato.

«Se l’è presa tanto?». Forse parlare sottovoce era uno sforzo inutile. Eravamo al primo piano, con la porta chiusa, ma non era detto che lui non ci sentisse.

Lei s’irrigidì. «Ancora non so».

«Jasper come sta?».

Fece un sospiro. «Ce l’ha con se stesso. Per lui è una prova ancora difficilissima e detesta sentirsi debole».

«Non è colpa sua. Digli che non sono arrabbiata, nemmeno un po’, te ne prego».

«Certo».

Edward mi aspettava all’ingresso. Quando giunsi ai piedi della scala, aprì la porta senza proferire parola.

«Le tue cose!», gridò Alice mentre mi avvicinavo cauta a Edward. Recuperò da sotto il pianoforte i due pacchetti, uno dei quali mezzo aperto, e la macchina fotografica, e me li ficcò sotto il braccio buono. «Mi ringrazierai dopo, quando li avrai aperti».

Esme e Carlisle mi augurarono entrambi una serena notte. Notai le occhiate che lanciavano al figlio, impassibile, più o meno come me.

Uscire fu un sollievo, mi lasciai svelta alle spalle le lanterne e le rose. Edward camminava al mio fianco in silenzio. Aprì la portiera dalla parte del passeggero e salii in macchina senza lamentarmi.

Sul cruscotto c’era un grande fiocco rosso, appiccicato all’autoradio nuova. Lo strappai e lo gettai a terra. Mentre Edward saliva dall’altro lato, scalciai il fiocco sotto il sedile.

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