Fritz Leiber - Ombre del male

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Ombre del male: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo romanzo di uno dei «padri» della fantascienza, Fritz Leiber, assume oggi una modernità sconcertante, perché ha saputo esprimere nel modo più netto i dubbi e le perplessità dell’uomo contemporaneo di fronte a delle realtà che paiono inspiegabili. La scienza «ufficiale» riesce a giustificare compiutamente tutti i fatti che vediamo accadere intorno a noi? Forse molte risposte dovrebbero essere cercate in una conoscenza più antica e dimenticata, che poneva come chiave di volta dell’universo i poteri indefiniti della mente umana. Metà della razza umana, si chiede Fritz Leiber, pratica ancora, attivamente, le arti arcane? Forse tutte le donne sono streghe? Un uomo, un uomo moderno, che è uno studioso, è costretto a convincersi di sì: la sua stessa moglie ne è la prova. E non basta. Altre tre donne, mogli di suoi colleghi, fanno uso delle conoscenze scientifiche dei mariti, dando alla magia un impulso moderno, per assicurarsi successo e vantaggi materiali. Contendono l’una con l’altra. Esperimentano la loro forza. Si distruggono a vicenda invocando antiche forze del male. E quando egli costringe la moglie ad astenersi da tali pratiche, la rende inerme di fronte alle male arti delle altre.

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E ve n’erano altre, molte altre.

Norman si trovava in una situazione analoga a quella dell’eroe leggendario che deve attraversare una stretta galleria senza mai toccarne i muri dall’aspetto falsamente seducente ed avvelenati.

Sapeva di non potere evitare il contatto dei pensieri-cisti ma nel frattempo quelli potevano ridursi e scomparire.

La giornata s’intonava al suo umore superficialmente triste e letargico. Anziché rinfrescarsi, com’era prevedibile dopo un temporale, l’aria aveva assunto un anticipato tepore primaverile. Le assenze degli studenti si erano notevolmente accresciute. Quelli che venivano alle lezioni erano disattenti e mostravano altri sintomi di eccitazione primaverile.

Solo Bronstein era lucido e presente. Non faceva che prendere da parte gli studenti a due a due e parlava con loro animatamente. Norman si accorse che tentava di dare il via a una petizione di protesta per la nomina di Sawtelle, e gli chiese di desistere. Bronstein rifiutò, ma comunque non era riuscito a trascinare con sé gli altri alunni.

Le lezioni di Norman erano fiacche. Si era accontentato di trasformare i suoi appunti in una descrizione verbalmente accurata, che gli aveva richiesto il minimo sforzo mentale. Guardava le matite degli alunni muoversi metodicamente mentre prendevano appunti, o si perdevano in ghirighori complicati. Due ragazze erano intente a disegnare il bel profilo del presidente dell’associazione studentesca, seduto in seconda fila. Vedeva che la loro fronte si aggrottava quando cercavano di riprendere il filo della lezione, per poi distendersi nuovamente quando lo abbandonavano. E in tutto quel tempo la sua mente sgattaiolava per vie laterali, troppo simili ai sogni e troppo irrazionali per meritare il nome di pensiero. Si trattava di una catena di parole come quelle che usano gli psicologi nei test associativi. Una di queste catene cominciò a muoversi quando ricordò una battuta che definiva le lezioni “l’atto di trasferire il contenuto del notes del professore nel notes degli alunni, senza passare dalla mente né dell’uno né degli altri”. Questo pensiero lo riportò all’idea del ciclostile.

“Ciclostile”, proseguì “Margaret Van Nice, Theodore Jennings, rivoltella, vetro della finestra, Galileo, cartiglio… (Allontanati subito da questa idea… è territorio proibito!)”

Il sogno a occhi aperti indietreggiò e prese una svolta diversa. “Jenning, Gunnison, Pollard, preside, imperatore, imperatrice, giocoliere, torre, impiccato… (Basta! non andare oltre!)”

Mentre la giornata proseguiva monotona, i sogni a occhi aperti assumevano un colore uniforme.

Rivoltella, coltello, scheggia, vetro rotto, unghia, tetano.

Dopo la lezione tornò nel suo studio e rimase assorto per un po’, poi si applicò ai lavoretti di poco conto, sempre chiuso nei suoi pensieri, al punto che talvolta si dimenticava di ciò che stava facendo. I sogni a occhi aperti non gli davano pace.

“Guerra, corpi ammucchiati, mutilazioni, delitto, corda, impiccato… (Lascia stare, basta con questi pensieri!)… Gas, rivoltella, veleno.

“Il colore del sangue e le ferite del corpo”.

E sempre più intenso diventava quel pulsare lento, il respiro del mostro annidato nel profondo della sua mente ove passavano sogni di carneficina dai quali si sarebbe presto svegliato emergendo da una pozza di fango. Lui non poteva fare nulla per fermarlo. Gli pareva di essere una palude coperta di una crosta che a vederla pareva terreno sano, e sotto, l’acqua che spingeva questa crosta, a tratti impercettibile, millimetro per millimetro, finché alla fine scoppiava d’un sol colpo in una vasta eruzione argillosa.

Tornando a casa s’imbatté nel professor Carr.

«Buona sera, Norman» esordì l’anziano signore alzando il suo panama per asciugarsi la fronte che si prolungava in una zona abbastanza alta di calvizie.

«Buona sera, Linthicum» disse Norman. Ma la sua mente seguiva un altro ragionamento. Pensava che se si fosse lasciato crescere l’unghia del pollice e l’avesse accuratamente affilata, si sarebbe potuto tagliare le vene dei polsi e morire dissanguato.

Il professor Carr si passò il fazzoletto sotto la barba.

«Mi è molto piaciuta la nostra partita a bridge di ieri» disse. «Si potrebbe giocare ancora noi quattro insieme, per esempio mercoledì, quando le nostre mogli andranno alla riunione delle mogli dei professori, non credi? Io e te potremmo essere compagni e usare il metodo Culbertson.» La sua voce tradiva una vogliosa aspettativa. «Sono stufo di giocare sempre secondo il metodo Blackwood.»

Norman assentì, ma stava pensando: “Come fanno certi uomini a imparare a inghiottire la propria lingua e poi morire soffocati?” Si provò a farlo. Ma questi erano pensieri da campo di sterminio! Le visioni macabre continuavano a nascere nella sua mente, una dopo l’altra. Avvertì le pulsazioni di quella cosa nascosta sotto i suoi pensieri, pulsazioni che diventavano intollerabili e potenti. Il professor Carr gli fece un cenno gentile col capo e se n’andò. Norman affrettò il passo, come se le pareti della galleria, in analogia alla fiaba, si stessero stringendo sul guerriero. Se non raggiungeva presto l’uscita avrebbe dovuto spingersi con tutta forza su quelle pareti per farsi strada.

Raggiunse il viale cittadino. Il semaforo era rosso. Si fermò sul marciapiede. Un grosso camion arrivava con un rumore di tuono verso l’incrocio a velocità sostenuta. Norman seppe in quel momento che cosa stava esattamente per accadere. Non avrebbe potuto fermarsi.

Egli avrebbe aspettato finché il camion fosse vicino, e poi si sarebbe gettato sotto le ruote. Fine della lunga galleria.

Era il significato del quinto pupazzetto, il gioco dei tarocchi deviato dalla sua tradizione.

Imperatrice, giocoliere. Ora il camion era vicino. Torre. Il semaforo segnava giallo, ma il camion non si sarebbe fermato. Impiccato…

Fu solo nel momento in cui si chinava in avanti, tendendo i muscoli della gamba, che la voce piatta gli parlò nell’orecchio, una vocetta dal tono uniforme eppure diabolicamente vivace, la voce dei suoi sogni: «Non ancora, non prima di due settimane, al minimo. Non prima di due settimane».

Riprese il suo equilibrio. Il camion gli passò accanto tuonando. Guardò dietro di sé, in alto prima, poi tutt’intorno. Non c’era nessuno. Solo un bambino nero e un vecchio, mal vestito, con una sporta infilata nel braccio. Nessuno dei due gli era vicino. Un brivido gli guizzò per tutta la schiena.

Allucinazioni, senza dubbio, pensò tra sé. Quella voce era dentro la sua testa. Tuttavia continuava a guardare a destra e a sinistra, annusando l’aria come per frugare nell’invisibile. Attraversò la strada e proseguì verso casa. Appena entrato, si versò da bere in misura più che abbondante. Strano, Tansy aveva già preparato il whisky e l’acqua minerale sulla credenza. Agitò il bicchiere e bevve tutto d’un fiato. Poi guardò il bicchiere vuoto con espressione dubitativa.

In quel momento udì una macchina che si fermava, e subito dopo Tansy entrò con in mano un pacco. Sorrideva, era accaldata. Con un sospiro di sollievo posò il pacco e respinse sulle tempie le ciocche nere che le cadevano sulla fronte.

«Uffa! che brutta giornata. Lo sapevo che avresti gradito un aperitivo. Quello però lo finisco io.»

Quando posò sul tavolo il bicchiere di Norman, vi era dentro solo il ghiaccio.

«Ecco, ora siamo fratelli di sangue, o qualcosa del genere. Tu versatene un altro.»

«Era già il secondo» le disse.

«Però! Credevo di averti defraudato della tua bibita!»

Sedette sull’orlo del tavolo e alzò l’indice in direzione del suo viso: «Caro signore, voi avete bisogno di riposo. O di distrazione. Non so quale dei due. Forse di tutti e due. Allora vi faccio questa proposta: una cena fredda, dei sandwich, poi, quand’è buio, prendiamo la macchina, e facciamo una passeggiata sulla collina. Sono anni che non lo facciamo. Che ne pensate, mio signore?»

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