«Bruno, si distenda sul divano.»
«Gesù! Gesù! Gesù! Gesù!»
«Le ordino di sdraiarsi sul divano!»
«Gesù, aiutami! Aiutami!»
«Mi ascolti, Bruno. Lei…»
«Falli andare via! Falli andare via!»
«Bruno, va tutto bene. Si rilassi. Stanno andando via.»
«No! Ce ne sono ancora di più! Ah! Ah! No!»
«Stanno andando via. I sussurri si fanno più deboli, più lontani. Stanno…»
«Più forti! Sono ancora più forti! Un ruggito di sussurri!»
«Si calmi. Si distenda e…»
«Si stanno infilando nel naso! Oh, Gesù! In bocca!»
«Bruno!»
Dal nastro uscì uno strano suono strozzato che si diffuse nella stanza.
Hilary si strinse le braccia attorno alle spalle. Lo studio le parve improvvisamente gelido.
Rudge spiegò: «E saltato giù dal divano ed è corso verso quell’angolo. Si è rannicchiato per terra coprendosi il viso con le mani.»
Dal registratore continuava a uscire quello strano suono ansimante e tremante.
«Ma l’ha fatto uscire dal trance,» disse Tony.
Rudge era pallido in volto. «All’inizio pensavo che sarebbe rimasto lì, nel suo sogno. Non mi era mai accaduta una cosa del genere. Sono molto bravo con la terapia ipnotica. Davvero. Ma temevo di averlo perso. C’è voluto un po’ di tempo ma alla fine ha cominciato a riprendersi.»
Il registratore continuava a diffondere mugolii e lamenti.
«Quello che sentite,» proseguì Rudge, «è Frye che grida. Era talmente spaventato da avere la gola bloccata. Il terrore gli ha paralizzato la voce. Stava cercando di urlare ma la voce non gli usciva.»
Joshua si alzò e spense il registratore con mano tremante. «Crede che sua madre lo chiudesse davvero in una stanza buia?»
«Sì,» rispose Rudge.
«E che in quella stanza ci fosse qualcos’altro?»
«Sì.»
«Qualcosa che produceva quei sussurri.»
«Sì.»
Joshua si passò una mano fra i folti capelli bianchi. «Ma, per l’amor del cielo, che cosa poteva essere, che cosa c’era in quella stanza?»
«Non lo so,» sospirò Rudge. «Speravo di scoprirlo in un’altra seduta. Ma quella fu l’ultima volta che lo vidi.»
A bordo del Cessna Skylane di Joshua, mentre si dirigevano verso Hollister, Tony disse: «Comincio a considerare questa faccenda in modo diverso.»
«E cioè?» domandò Joshua.
«Be’, all’inizio era tutto molto semplice: Hilary era la vittima e Frye il cattivo di turno. Ma ora… in un certo senso, forse anche Frye era una vittima.»
«Capisco che cosa vuoi dire,» intervenne Hilary. «Ascoltando quei nastri… be’, mi spiace davvero per lui.»
«È giusto dispiacersi per lui,» ribattè Joshua, «ma non dimentichiamo che è maledettamente pericoloso.»
«Ma non è morto?»
«Voi che cosa ne dite?»
Hilary aveva ambientato due scene di un suo precedente film a Hollister, quindi conosceva abbastanza bene il posto.
Apparentemente, Hollister assomigliava a centinaia di altre cittadine della California. C’erano strade deliziose e quartieri orribili. Case nuove e case vecchie. Palme e querce. Cespugli di oleandri. Era una delle zone più aride del paese e quindi sempre invasa dalla polvere, che si faceva particolarmente evidente quando iniziava a soffiare il vento.
Ciò che rendeva Hollister diversa dalle altre città era la terra su cui poggiava. Un’insieme di faglie. Molte località californiane erano costruite nei pressi di faglie geologiche che ogni tanto si agitavano dando origine a un terremoto. Ma Hollister non era appoggiata semplicemente su una di queste, bensì su una rara confluenza di oltre una decina di faglie, inclusa quella di Sant’Andrea.
Hollister era una città in perenne movimento: si registrava almeno un terremoto al giorno. Naturalmente, la maggior parte delle scosse telluriche erano dei gradini più bassi della scala Richter e la città non era mai stata rasa al suolo. Ma i marciapiedi erano pieni di pietre e fessure. Una strada poteva sprofondare il lunedì per rialzarsi il martedì e cedere definitivamente il mercoledì. Ogni tanto si registrava una serie di scosse di bassa entità che andava avanti per un paio d’ore, con qualche breve interruzione: ma ormai gli abitanti della zona non ci facevano più caso, come gli abitanti delle zone sciistiche e montane non prestano più attenzione alle bufere che al massimo possono portare qualche centimetro di neve. Nel corso dei decenni, naturalmente, il percorso di alcune strade di Hollister era stato modificato dalla terra in perenne movimento; i viali che una volta erano diritti avevano finito per avere qualche curva o, in alcuni casi, persino i tornanti. Nei negozi gli scaffali erano inclinati verso il muro oppure provvisti di speciali supporti per evitare che bottiglie e lattine cadessero a terra alla minima scossa tellurica. C’era gente che abitava in case che sprofondavano gradualmente nel terreno instabile, ma il processo era talmente lento da non creare allarmismi o paure, né tanto meno il desiderio di trovarsi un’altra sistemazione. Gli abitanti riparavano le crepe nei muri, abbassavano il livello delle porte e cercavano di aggiustare tutto alla bell’e meglio. Ogni tanto qualcuno decideva di aggiungere un locale alla propria casa, senza accorgersi che l’edificio poggiava su un lato della faglia e la nuova stanza su quello opposto. Con il passare del tempo il locale si sarebbe mosso con caparbia determinazione, verso nord, sud, est od ovest, in un lento ma inesorabile processo che si sarebbe concluso con il definitivo allontanamento dalla casa principale. Le fondamenta di alcuni edifici contenevano buchi di scolo e pozzi profondissimi; questi pozzi si allargavano senza tregua sotto il livello delle case e un giorno le avrebbero inghiottite, ma nel frattempo gli abitanti di Hollister conducevano una vita assolutamente normale. Molta gente sarebbe terrorizzata all’idea di vivere in una città dove, a detta degli stessi residenti, si poteva «andare a letto la sera ad ascoltare la terra che sussurrava fra sé e sé». Ma ormai da generazioni e generazioni, gli abitanti di Hollister affrontavano la vita con spirito ottimista, a volte difficile da conservare.
Era l’apice dell’ottimismo californiano.
Rita Yancy abitava in una casetta ad angolo con un enorme portico, in una strada tranquilla. Lungo il vialetto d’ingresso erano stati piantati fiori bianchi e gialli.
Joshua suonò il campanello. Hilary e Tony rimasero alle sue spalle.
Venne ad aprire una signora anziana, con i capelli grigi raccolti in uno chignon. Aveva il viso pieno di rughe e gli occhi azzurri limpidi e vivaci. Il sorriso era accattivante. Indossava un vestito da casa blu, uri grembiule bianco e un paio di scarpe decisamente fuori moda. Si asciugò le mani in uno strofinaccio e disse: «Sì?»
«Mrs Yancy?» domandò Joshua.
«Sono io.»
«Mi chiamo Joshua Rhinehart.»
La donna annuì. «Immaginavo che sarebbe venuto.»
«Devo assolutamente parlarle.»
«Mi sembra la classica persona che non si arrende facilmente. Anzi, che non si arrende mai.»
«Sarei disposto a dormire qui fuori sotto il portico pur di ottenere quello per cui sono venuto.»
Lei sospirò. «Non sarà necessario. Dopo la sua telefonata di ieri, ho riflettuto molto sull’intera faccenda e sono giunta alla conclusione che lei non può farmi nulla. Proprio niente. Ho settantacinque anni e non credo che sbattano in galera gente della mia età. Quindi posso anche raccontarle come stanno le cose ed evitare così che lei continui a perseguitarmi.»
Indietreggiò di un passo, spalancò la porta e li fece entrare.
Nell’attico della casa in cima alla collina, Bruno si svegliò urlando.
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