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Donald Wandrei: I giganti di pietra

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Donald Wandrei I giganti di pietra

I giganti di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale segreto legame stringe in una sola terrificante identità il misterioso tempio preistorico di Stonehenge, in Inghilterra, al punto piú solitario dei globo, l’isola di Pasqua, sperduta con le sue enigmatiche statue antichissime nell’immensa distesa equorea del Pacifico meridionale? Perché una catena di tremende sciagure è connessa alla indescrivibile statuetta verdastra, vibrante, antica di milioni di anni, dalle origini cosmiche, trovata da un archeologo in un cimitero abbandonato? E che cosa si cela nell’intrico dell’immensa rete di gallerie sotterranee, che sembrano collegare tra loro le misteriose sedi di entità e vicende che si direbbero incomprensibili all’uomo, antitetiche al suo destino e alla sua natura? Con Giganti di Pietra, Donald Wandrei segna una tappa fulgida nella letteratura dell’orrore e del mistero cosmico, aprendo nuove prospettive alla letteratura d’anticipazione e di fantasia, e rinnovando la tradizionale materia del romanzo “gotico” con le risorse piú recenti della narrativa fantascientifica. I Giganti di Pietra è un romanzo che non si dimentica facilmente!

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Si fermò poco sopra Graham e gli rivolse la parola. La parlata dolce e fluida ricordava il cicaleccio di un uccello, e non assomigliava a nessuna lingua conosciuta. Graham pensò di essere emerso in un altro mondo, posto forse all’altra estremità della colonna luminosa. Lo straniero guardava l’archeologo con aria non meno sorpresa. Lo scienziato gli rivolse la parola in inglese, e non ottenendo nessun risultato provò con qualche frase nelle lingue che aveva imparato qua e là durante le sue esplorazioni: spagnolo, francese, tedesco, italiano. Tentò persino con il latino, il siamese, l’arabo e qualche parola in cinese, ma lo sconosciuto continuava a fissarlo con espressione sempre più sorpresa. Finalmente lo strano essere si decise a togliere Graham dall’incomoda posizione: gli si avvicinò maggiormente tendendogli una mano. Lo scienziato sorrise, convinto com’era di sognare. Levò dall’acqua un braccio intorpidito alzandolo verso la mano tesa, certo di mettere, con quel gesto, la parola fine alla strana visione. Ebbe una scossa nel sentire quanto fosse reale la mano che afferrò la sua, e l’effetto aumentò quando si rese conto che la fragile creatura, che lui pensava uscita dalla sua fantasia, nonostante l’apparente gracilità era in grado di strapparlo dal mare e di sollevarlo con sé senza sforzo lungo l’invisibile scala per portarlo verso il bizzarro apparecchio.

L’assurdo della situazione fece ridere Graham. Quella risata fu una reazione dopo la tensione alla quale era stato sottoposto durante l’estenuante marcia in mezzo alla tempesta, dopo tutte le prove che avevano frustrato la sua vitalità.

Adesso provava la piacevole sensazione di fluttuare leggermente nel cielo, tenuto per mano dallo gnomo grottesco che lo fissava con uno sguardo grave e assorto nel quale Graham lesse un’infinità di domande.

Lo strano personaggio introdusse Graham nell’apparecchio immobile. Dal momento in cui pose piede nell’eccezionale velivolo, l’archeologo fu assalito da un cumulo di emozioni che si accavallavano rapide le une alle altre. Vide subito molti altri esseri simili al suo salvatore. Uomini e donne. Queste ultime erano quasi identiche ai maschi, avevano il torace piatto, la testa calva, e gambe e braccia ugualmente sottili.

La guida condusse il naufrago in una stanza dove Graham poté cambiare i suoi vestiti inzuppati con una specie di tunica confezionata con stoffa dai riflessi di bronzo e che, al contrario dell’apparenza, era soffice e calda. Improvvisamente si rese conto di aver fame, e cercò di spiegare all’ospite, con gesti, la sua necessità. L’ometto capì e lo lasciò solo per tornare quasi subito portando alcune fiale piene di liquidi diversi. Graham ne ingoiò il contenuto il cui gusto gradevole non gli ricordò nessuna bevanda conosciuta, e immediatamente si sentì rinvigorire. Tutti i suoi sensi si affinarono registrando sensazioni più nette. Senza dubbio quei liquidi avevano maggior potere nutritivo, e un effetto più rapido, di quelli ai quali era abituato.

Il successo ottenuto indicando a gesti la sua necessità di mangiare, gli suggerì il modo per arrivare a comunicare con gli strani ometti che lo ospitavano. Cominciò a indicare uno per uno gli oggetti che lo circondavano, e ogni volta qualcuno dei presenti ne diceva il nome. A poco a poco, con quel sistema, riuscirono a formare un rudimentale vocabolario per i sostantivi. Più difficile si dimostrò invece la faccenda, quando si trattò di passare ai verbi. Riuscirono a mettersi d’accordo sui più facili, come ad esempio: mangiare, camminare, scrivere, parlare. Le parole che Graham vide scritte da qualche parte nella stanza, o su etichette o sopra alcuni schermi, gli sembrarono più familiari di quelle che sentiva pronunciare. Apparentemente quegli strani esseri usavano una specie di stenografia per il linguaggio parlato.

Intanto l’apparecchio aveva ripreso la sua corsa: questo fatto non aveva richiesto al pilota altro sforzo che quello di premere alcuni pulsanti, e subito l’apparecchio aveva preso docilmente quota vibrando poi in direzione nord-est, almeno così parve a Graham.

Gli ospiti manifestavano per l’archeologo la stessa stupita curiosità che animava lo scienziato nei loro confronti, mantenendo lo stesso atteggiamento che avrebbero avuto di fronte a un fossile o al rappresentante di una razza del tutto scomparsa.

Graham cominciava a sentirsi a disagio. L’aspetto di quegli ometti simili a ragni, il loro linguaggio a trillo d’uccello, gli oggetti strani che li attorniavano e il cui uso e significato sfuggivano alla sua comprensione, quell’apparecchio volante che obbediva a regole completamente sconosciute, tutte queste cose scavavano tra lui e i suoi ospiti un abisso difficilmente colmabile.

L’archeologo aveva imparato che il suo salvatore rispondeva al nome di Moia Tohn. Era già qualcosa. Seguendo un’ispirazione, Graham prese una specie di matita e disegnò i simboli rappresentanti il sistema solare. Segnò il sole nel cielo, ne disse il nome e poi lo indicò sul suo schizzo. La stessa cosa fece poi con una sfera indicante la terra. A questo punto della sua dimostrazione incontrò una difficoltà: come determinare l’anno, il mese e il giorno? Come ridurre visivamente il concetto di tempo? Intanto Moia Tohn si era ingolfato in una discussione con i suoi compagni. Finalmente sembrò che avessero raggiunto un accordo, e allora Moia Tohn condusse Graham in un angolo dove si trovavano una poltrona e uno schermo, lo fece accomodare sul sedile e sistemò i contatti. Poi prese un casco e lo mise sulla testa dell’ospite. Graham, che teneva lo sguardo fisso allo schermo, restò sbalordito. Stava pensando a Iris, ed ecco che ne vide l’immagine riprodotta fedelmente. Dietro di lui, Moia Tohn sembrava eccitatissimo.

Dopo diverse prove, Graham si rese conto che lo schermo non era in grado di riprodurre i pensieri astratti, mentre bastava pensare a qualcosa di visibile perché subito ne fotografasse l’apparenza. L’archeologo dovette compiere un notevole sforzo per impedirsi di pensare continuamente alla sua donna, e trovare invece il sistema per spiegare alle straordinarie creature la sua presenza.

Riuscì finalmente a concentrarsi e a rappresentare qualcuno degli avvenimenti che lo avevano portato sull’Isola di Pasqua. Si sentì percorrere da un brivido nel rivedere sullo schermo la mostruosa colonna di luce palpitante. A questo punto Moia Tohn prese il posto di Graham sulla poltrona, e l’archeologo vide apparire a sua volta una colonna vaga, appena accennata, che scomparve quasi subito per cedere il posto a un piccolo uomo caduto dalla base stessa del pilastro.

Ecco dunque cosa era successo, pensò Graham: la sua evasione dal pilastro turbinante aveva avuto dei testimoni che erano accorsi a trarlo in salvo.

Dopo di che lo scienziato tentò di risolvere il problema di stabilire la data. Per tradurre visivamente l’idea del tempo fece passare più volte rapidamente il sole sullo schermo, facendolo seguire dalle notti stellate con la luna, e poi dall’alba. Poi mostrò ancora l’Isola di Pasqua, la grande colonna, e infine la rappresentazione grafica dell’anno in cui si era prodotta la catastrofe.

Moia Tohn capì, e sembrò assai stupito. Si sostituì ancora all’archeologo davanti allo schermo e gli dimostrò, più che altro a gesti, che non possedeva alcun ricordo di un’isola in quella parte dell’oceano, che non aveva mai neppure sentito parlare dell’Isola di Pasqua né delle grandi statue. Poi fece apparire un simbolo che a tutta prima Graham non riuscì a decifrare. Infine capì che doveva trattarsi del millesimo dell’anno in corso, ma stentava a credere ai suoi occhi perché, se aveva compreso giusto, doveva trovarsi circa nell’anno 1.500.000!

L’anno un milione e cinquecentomila! Anche se la scarsa familiarità di Moia Tohn con i simboli matematici gli aveva fatto commettere qualche errore, la cosa in sé non cambiava affatto, perché anche una differenza di qualche secolo non aveva importanza di fronte a quella data.

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