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Donald Wandrei: I giganti di pietra

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Donald Wandrei I giganti di pietra

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Quale segreto legame stringe in una sola terrificante identità il misterioso tempio preistorico di Stonehenge, in Inghilterra, al punto piú solitario dei globo, l’isola di Pasqua, sperduta con le sue enigmatiche statue antichissime nell’immensa distesa equorea del Pacifico meridionale? Perché una catena di tremende sciagure è connessa alla indescrivibile statuetta verdastra, vibrante, antica di milioni di anni, dalle origini cosmiche, trovata da un archeologo in un cimitero abbandonato? E che cosa si cela nell’intrico dell’immensa rete di gallerie sotterranee, che sembrano collegare tra loro le misteriose sedi di entità e vicende che si direbbero incomprensibili all’uomo, antitetiche al suo destino e alla sua natura? Con Giganti di Pietra, Donald Wandrei segna una tappa fulgida nella letteratura dell’orrore e del mistero cosmico, aprendo nuove prospettive alla letteratura d’anticipazione e di fantasia, e rinnovando la tradizionale materia del romanzo “gotico” con le risorse piú recenti della narrativa fantascientifica. I Giganti di Pietra è un romanzo che non si dimentica facilmente!

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Infine l’archeologo cadde in un sonno nervoso, interrotto da frequenti risvegli colmi del fragore del vento e delle ingiurie del mare. Una volta gli sembrò anche di sentire l’eco di voci lontane, senza gioia, inumane, e lo smorzarsi di un grido, ma era soltanto la sua stessa voce uscita da un incubo. Le stelle brillavano debolmente sopra di lui come candele al loro ultimo guizzo. Immensa era la solitudine del mare, del cielo e della terra, quale non sì sarebbe creduta possibile. Sembrava che il mondo intero fosse stato inghiottito, e che lui si ritrovasse, ultimo e unico essere vivente, su una terra devastata.

Poi Graham si riaddormentò, e fece un sogno.

Solcava come una cometa gli immensi spazi al di là del Sistema Solare, più veloce di una meteora, più veloce della stessa luce. Piombava in avanti con una tale rapidità che le stelle e le galassie gli sfilavano accanto come fossero mosche, per spegnersi poi, dopo il suo passaggio, mentre lui copriva distanze astronomiche. E una strana distorsione si produceva nello spazio che si incurvava in maniera astratta, e i milioni e milioni di anni luce che aveva percorso svanirono.

Poi le galassie e le nebulose furono dietro di lui. Tutto l’Universo era scomparso. Graham non aveva esistenza e proveniva da regioni fuori d’ogni concetto oltre la speculazione, al di sopra di tutte le teorie. E dopo il caos informe, il suo io che viveva quel sogno si posò su una materia organica e si sentì osservato attraverso le lenti di un colossale microscopio. L’archeologo non era che una semplice molecola in un cosmo a sei dimensioni. Era diventato un microbo.

Con l’illogicità fantastica dei sogni, la visione era durata solo un attimo. Tutto era successo in un infinitesimale momento, ma adesso, con la paradossale lentezza dell’eternità combinata con la velocità del pensiero, i Titani si accorsero della sua presenza. Graham vide allora le figure fluttuanti protendersi da altri cieli, impercettibili ai sensi umani, perpetuamente vibranti nei cicli della pulsazione, turbinanti attraverso l’immensità delle loro superesistenze. Essi avevano avvertito la presenza dell’intruso nel loro regno, e Graham sapeva di essere stato notato. Sentì irradiare da loro una grande forza.Ipensieri, la volontà, la vita e il loro compito gli erano assolutamente incomprensibili, ed ebbe l’impressione di essere diminuito, respinto, microrganismo ricacciato al suo posto, considerato alla stregua di una cellula di galassia, di una molecola di stella appartenenti a un universo inferiore.

Si svegliò di colpo con la pelle arida e bruciante, e rimase qualche tempo con gli occhi aperti ad ascoltare il respiro possente del vento e la voce fantastica del mare.

Un’alba grigia salutò il definitivo risveglio dello scienziato, e la visione fantomatica dell’isola prese il posto del terrore notturno e dei suoi incubi. Era sfinito e nervoso, quasi avesse passato una notte insonne. La sua mente era ancora piena delle visioni misteriose e profetiche che avevano ossessionato il suo subcosciente.Imassi rocciosi e i giganti di pietra conservavano, nella nebbia del mattino, il loro impressionante potere e la loro minaccia di realtà inumana. Il vento era ancora più impetuoso, e le raffiche, cariche delle minutissime gocce della spuma marina, impregnavano l’aria di umidità salmastra. Più alte sulle onde s’alzavano le creste impalpabili, e l’oceano ribolliva furioso.

Quando si alzò in piedi, l’archeologo ebbe un capogiro: il terreno ondeggiava. Il vento staffilava il viso dell’uomo, ma nell’aria vi era un altro elemento, strano, indecifrabile, quasi una vibrazione contenuta. Una striscia di cumuli attraversava il cielo all’orizzonte, e in alto, grosse nubi frastagliate, nere come la fuliggine, correvano veloci verso nord spinte dal vento. Graham sapeva che l’apparente placidità dei cumuli e dei cirri era ingannatrice nel Pacifico, e che in realtà le soffici nuvole erano sempre foriere di tempeste violente o di repentini mutamenti di tempo.

Accompagnato dal vento e dal frastuono del mare, Graham si mise in cammino fiancheggiando il cimitero dei giganti.Imonoliti e le statue ciclopiche lo opprimevano con la loro presenza, e gli impedivano di pensare. Da due giorni non vedeva essere umano e non ascoltava altre voci che quelle della natura, e la sua unica compagnia era stata la profusione di mostri di pietra. L’archeologo si fermò nel punto in cui il terreno era solcato dalla gigantesca orma chiedendosi da che parte avrebbe dovuto dirigersi. Decise infine di procedere verso il Rano Raraku seguendo le impronte segnate nel basalto, a larghi intervalli, quasi fossero passi di un essere colossale. Continuò a camminare riprovando il terrore della notte passata, quasi che la realtà fosse solo il seguito dell’incubo, sentendo tutto il peso della solitudine accresciuta dalla coscienza che le orme erano veramente state impresse da una creatura ciclopica. Pensò alla statuetta verde di Isling chiedendosi se non fosse stata lei a produrre il solco profondo sulla riva nel giungere all’isola, e se non avesse nel frattempo subito una straordinaria metamorfosi. Era un’idea pazzesca la sua, certo, ma non più di quello che aveva visto e vissuto nel corso degli ultimi mesi.

La salita al vulcano era ripida, e il vento portava dalla spiaggia minuti granelli di terra che gli pungevano il viso. Nel cielo i cumuli erano scomparsi fondendosi con il grigio uniforme. E lontano, a ovest, si erano ammassate nubi minacciose. Graham proseguì scalando le rocce e i tumuli, aiutandosi con le mani quando la salita si faceva troppo ripida, attraversando rare zone coperte di timida erba. Incontrava poche statue adesso, ma le impronte nel basalto continuavano. Conclusa finalmente l’ascesa al Rano Raraku, Graham si guardò attorno attraversando il cantiere degli scultori. Statue ultimate o incompiute coprivano il versante esterno del cratere nel più stupefacente spettacolo che sia dato di vedere sulla Terra. La maggior parte di quelle statue giacevano al suolo, ma non per questo avevano perso il loro impressionante aspetto. Qualche testa sembrava sorgere dal terreno. Gli occhi immobili fissavano sul mare uno sguardo senza espressione. Una volta ancora Graham fu colpito dalla maestosa imponenza degli uomini di pietra. A quale razza imperiosa avevano appartenuto? Notò un particolare grottesco: tutte le teste erano completamente piatte sulla nuca, e questo particolare dava loro una strana angolosità che suggeriva l’idea di un diverso sistema geometrico. Ma qualunque fosse l’atteggiamento di quelle statue, esse avevano un’aria di superiorità senza senso. Quel posto era qualcosa di più di un cantiere da scultori. Era il cimitero degli dèi! Il mare faceva arrivare fin lì il suo tuono. Graham avanzò ancora. Le impronte continuavano oltre le statue e sparivano nel cratere. Certamente Graham aveva fatto mille supposizioni su quello che avrebbe trovato in quel posto, ma la possibile realtà superò tutte le ipotesi.

Ai suoi piedi si stendeva il cratere del Rano Raraku. Era pressappoco quale se lo ricordava dalle sue precedenti esplorazioni, ma con una differenza: l’immagine perduta, la statuetta verde era là, al centro del cratere, posata su un piedestallo della stessa sostanza che la componeva, e le tracce dei passi giganteschi si fermavano davanti all’altare di quel dio mostruoso.

Ma non fu soltanto la vista della statuetta che immobilizzò Graham. Malignamente l’idolo tremolava sulla sua base nel compimento dell’intero ciclo delle sue trasformazioni, massa d’energia pura dai contorni indefiniti, metallo, liquido, incubo… Pigmeo e Titano pronto a scatenarsi nello spazio, cerchio, angolo, solido, di una geometria sconosciuta, splendido di un colore che gli uomini non avevano mai visto. Una fiamma continua sembrava possederlo e circondarlo, non bruciante e non fredda, ma insopportabile nella sua intensità immutabile. Anche il blocco che sosteneva l’idolo sembrava percorso dalle stesse vibrazioni. Poi dalla statuetta scaturì una colonna luminosa che si innalzò nel cielo perdendosi nello spazio. Affascinato dal fenomeno, Graham alzò lo sguardo a fissare quella forza che esulava da tutte le cognizioni scientifiche terrestri. La colonna di luce trapassò le nubi. L’archeologo chiuse per un attimo gli occhi doloranti. Istintivamente capiva che l’idolo verde avocava a sé, per mezzo di quell’incredibile pilastro fosforescente, una sbalorditiva energia che gli giungeva dagli abissi del tempo. Tornò a guardare. La colonna ingigantiva e intensificava la sua luminosità tingendola di un colore irreale, e il suo ingrandirsi continuava, lentamente ma inesorabilmente.

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