«Farò del mio meglio con tutta la mia buona volontà» disse Gibson, soddisfatto ma un po’ preoccupato di non riuscire a far fronte a tante nuove responsabilità. Il fatto però che il Presidente gli avesse affidato quell’incarico era confortante: significava che Hadfield, almeno, era convinto che lui fosse in grado di portarlo a termine.
Mentre stavano discutendo di dettagli amministrativi, Gibson capì che Hadfield pensava di restare assente da Marte un anno al massimo. Il Presidente dava l’impressione di considerare quel viaggio sulla Terra come una vacanza meritata, che gli spettava di diritto e che era stata rimandata troppo a lungo. Gibson si augurò che quell’ottimismo trovasse una conferma nei fatti.
Verso la fine, la conversazione scivolò fatalmente su Irene e Jimmy. Quel lungo viaggio di ritorno insieme avrebbe dato a Hadfield la possibilità che lui desiderava di studiare a fondo il futuro genero, e Gibson si augurò che Jimmy sapesse mostrarsi all’altezza della situazione. Era chiaro che Hadfield considerava questo lato del viaggio con divertito interesse. Come fece osservare a Gibson, se Irene e Jimmy fossero riusciti ad andare sempre d’accordo durante i tre mesi di stretta convivenza a bordo dell’ Ares , c’era da sperare che il loro sarebbe stato un matrimonio fortunato. E se invece non ci fossero riusciti, niente di male perché se ne sarebbero accorti in tempo.
Nel lasciare l’ufficio Gibson si augurò di avere espresso in modo chiaro al Presidente la sua simpatia e la sua comprensione. Hadfield sapeva che tutto Marte lo spalleggiava, e che Gibson avrebbe fatto del suo meglio per ottenergli anche la comprensione della Terra. Il giornalista guardò la scritta dipinta senza pretese sulla porta. Nessuno l’avrebbe cambiata, comunque fossero andate le cose, perché la scritta stava a indicare un incarico, non un uomo determinato. Per dodici mesi circa, Whittaker avrebbe lavorato dietro quella porta come governatore democratico di Marte ed entro limiti ragionevoli anche come coscienzioso servitore della Terra. Chiunque avesse occupato quel posto, la scritta sarebbe rimasta immutata. Era un’altra delle opinioni ben radicate di Hadfield che il posto fosse importante e non l’uomo che lo occupava. Per quanto, pensò Gibson, non l’avesse poi messa in pratica con scrupolosa esattezza, dato che l’anonimato non era certo tra le caratteristiche di Hadfield.
L’ultimo razzo per Deimos partì tre ore più tardi trasportando Hadfield, Irene e Jimmy.
Irene era andata all’albergo per aiutare Jimmy a fare i bagagli e per salutare Gibson. Fremeva d’impazienza e di emozione e raggiava talmente di felicità che era un piacere guardarla. I suoi sogni si erano avverati di colpo tutti insieme: andava sulla Terra, e ci andava con Jimmy. Gibson si augurò che nessuna delusione guastasse il suo bell’entusiasmo. Sarebbe stato un vero peccato.
Il bagaglio di Jimmy aveva presentato parecchie complicazioni a causa della quantità di ricordi che il ragazzo aveva raccolto su Marte, soprattutto esemplari di minerali e di piante accumulatisi durante le sue gite all’esterno delle cupole. Bisognava pesare accuratamente tutta quella roba, e si dovette ricorrere a un paio di strazianti autodafè quando si scoprì che il bagaglio superava di ben due chili il peso consentito per ogni persona. Ma come Dio volle anche l’ultima valigia fu chiusa e spedita verso la pista di decollo.
«Ti raccomando, appena arrivato, di metterti in contatto con la signora Goldstein» gli disse Gibson. «Guarda che ti aspetta.»
«State tranquillo» lo rassicurò Jimmy. «Siete davvero molto gentile a darvi tanta pena per me. Vi siamo molto grati per quanto avete fatto per noi, vero, Irene?»
«Certo» disse la ragazza. «Non so davvero come avremmo fatto, senza di voi.»
Gibson fece un sorriso un po’ triste.
«Sono convinto che in un modo o nell’altro avreste fatto benissimo anche da soli» disse. «Sono felice che le cose siano andate come sono andate, e sono sicuro che sarete felici. E… mi auguro di rivedervi tra non molto tutti e due su Marte!»
Nello stringergli la mano Gibson provò ancora una volta il desiderio strapotente di rivelare al ragazzo la verità senza preoccuparsi delle conseguenze, e di salutarlo come un padre saluta il figlio. Ma sapeva che se l’avesse fatto sarebbe stato soprattutto per egoismo, per un atto di possesso, di imperdonabile autoaffermazione che avrebbe distrutto di colpo tutto il poco bene che aveva fatto al ragazzo in quegli ultimi mesi. Mentre lasciava la mano di Jimmy notò negli occhi del ragazzo un’espressione nuova. Era come un sospetto della verità, ancora vago e impreciso, che forse un giorno non lontano si sarebbe trasformato in certezza. Gibson si augurò che fosse così perché allora, quando fosse venuto il momento della rivelazione, il suo compito sarebbe stato molto più facile.
Vide i due giovani allontanarsi l’uno al braccio dell’altro, dimentichi di quello che li circondava, il pensiero già lontano nello spazio senza confini. Anche di lui si erano già dimenticati…
L’alba non era ancora spuntata quando Gibson uscì dal compartimento stagno principale e si allontanò dalla città ancora immersa nel sonno. Phobos si era coricato un’ora prima, e l’unica luce che illuminava ora il suo cammino era quella delle stelle e di Deimos alto sull’orizzonte occidentale. Diede un’occhiata all’orologio… Dieci minuti di marcia, se non avesse incontrato ostacoli.
«Su, Quiicc, andiamo» disse. «Facciamo una bella passeggiata per scaldarci.»
La temperatura esterna era di almeno cinquanta sotto zero, ma Quiicc aveva l’aria di non soffrirne affatto, e poi Gibson era del parere che il cucciolo avesse bisogno di moto. In quanto a lui stava benissimo, imbacuccato com’era nell’equipaggiamento termico.
Le oxyfere erano cresciute molto in quelle poche settimane. Avevano superato la statura di un uomo, e Gibson era convinto che la maggior parte del merito andava a Phobos. Il Progetto Aurora cominciava già a dare i primi risultati. Persino la calotta polare artica, che si stava avvicinando alla sua massima espansione di mezz’inverno, si era arrestata nella sua avanzata verso l’emisfero opposto, mentre i resti della calotta antartica si erano sciolti completamente.
Si fermarono a un chilometro circa dalla città, sufficientemente lontani dalle sue luci per non essere disturbati nelle loro osservazioni. Gibson guardò nuovamente l’orologio. Mancava meno di un minuto. Lui sapeva che cosa pensavano in quel momento i suoi amici. Fissò il disco gibboso appena visibile di Deimos, e aspettò.
Di colpo Deimos divenne più luminoso. Un attimo dopo parve spaccarsi in due, mentre una stella piccolissima e di uno splendore accecante si staccò dall’orlo del satellite e prese a scendere lentamente verso ovest. Anche a tante migliaia di chilometri di distanza il fulgore dei razzi atomici era talmente abbagliante che gli occhi stentavano a sostenerlo.
Gibson era convinto che lo osservassero. A bordo dell’ Ares , in quel momento erano certamente ai finestrini d’osservazione, intenti a guardare la grande falce disegnata nel cielo dal mondo che stavano abbandonando, così come un secolo prima, tanto gli sembrava che fosse passato, lui aveva salutato la Terra.
Chissà che cosa stava pensando Hadfield. Forse si chiedeva se e quando avrebbe rivisto Marte. Su questo punto Gibson non aveva più dubbi: per quante battaglie avesse dovuto combattere, alla fine Hadfield le avrebbe vinte tutte, come aveva fatto in passato.
Adesso la piccola stella bianco-azzurra si era spostata di parecchi gradi rispetto a Deimos, e rimpiccioliva, rapidamente a mano a mano che si allontanava verso il Sole… e verso la Terra.
Il Sole si affacciò in quel momento sull’orizzonte orientale. Subito le alte piante verdi si riscossero dal loro sonno, sonno che era già stato interrotto dal meteorico passaggio di Phobos. Gibson guardò ancora una volta la stella in movimento e alzò la mano in un addio silenzioso.
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