Constantine si girò quando Lindsay, cigolando, avanzò con cautela verso di lui. Le pupille dei suoi occhi di plastica avevano dimensioni diverse; si dilatavano e contraevano visibilmente, sforzandosi di mettere a fuoco le immagini. — Abelard. Sei tu?
— Sì, Philip. — Il robot si accovacciò accanto alla sdraio; Lindsay si accomodò sulla sua morbida testa polposa.
— Allora, com’è andato il tuo viaggio?
— È una vecchia nave — commentò Lindsay. — Un po’ come un padiglione geriatrico volante. C’era un rifacimento di La Bianca Periapsi di Vetterling.
— Uhm, non il suo lavoro migliore.
— Hai sempre avuto buon gusto, Philip.
Constantine si rizzò a sedere sulla sua sdraio. — Devo dire che mi portino una vestaglia. So che avrei un aspetto migliore.
Lindsay allargò le braccia.
— Se tu potessi vedere sotto questo vestito… Non ho sprecato molti soldi nei ringiovanimenti, di recente. Al mio ritorno procederò ad una trasformazione totale. Per me è Europa, Philip. I mari.
— Ti fai cane solare per sfuggire alle limitazioni umane?
— Sì, potresti anche dire questo… Ho portato i piani con me. — Lindsay infilò la mano dentro la giubba e tirò fuori un pieghevole. — Voglio che tu ci dia un’occhiata insieme a me.
— D’accordo. Per farti piacere. — Constantine accettò l’opuscolo.
La pagina centrale mostrava l’immagine di un Angelo: un post-umano acquatico. La pelle era nera, liscia e lucida. Le gambe e la cinta pelvica non c’erano più; la colonna vertebrale si estendeva in una robusta coda pinnata. Branchie scarlatte si dipartivano dal collo. La cassa toracica era un apparato nero, aperto, dal quale uscivano bianche reti piumate piene zeppe di batteri simbiotici.
Le lunghe braccia nere erano punteggiate da chiazze fosforescenti, rosse, azzurre e verdi, collegate con il sistema nervoso. Lungo le costole e la coda pinnata si stendevano due linee laterali: quelle strisce dense di nervi ospitavano un nuovo senso acquatico che riusciva a percepire il tremito dell’acqua, come un tocco a distanza. Il naso conduceva a sacchi simili a polmoni pieni zeppi di cellule chemiosensitive.
Gli occhi senza palpebre erano enormi, e il cranio era stato rimodellato per accoglierli.
Constantine spostò il pieghevole davanti ai propri occhi, sforzandosi di metterlo a fuoco. — Molto elegante — disse alla fine. — Niente intestini?
— Sì. Le reti bianche filtrano lo zolfo per i batteri. Ciascun angelo è autosufficiente, ricava vita, calore, ogni cosa dall’acqua.
— Capisco — disse Constantine. — La comunità con l’anarchia… Parlano?
Lindsay si sporse in avanti, indicandogli le luci fosforescenti. — Ardono.
— E si riproducono?
— Sono laboratori genetici. I bambini possono essere creati. Ma queste creature possono durare per secoli.
— Ma dov’è il peccato, Abelard? Le menzogne, la gelosia, la lotta per il potere? — Constantine sorrise. — Suppongo che possano commettere qualche atto illecito insito nell’ecosistema.
— Non gli manca l’ingegno, Philip. Sono sicuro che troveranno il modo di commettere dei crimini, se ci si metteranno di buona volontà. Ma non sono come eravamo noi. Non sono costretti a farlo.
— Costretti… — Un’ape atterrò sul viso di Constantine, il quale la scostò con delicatezza. Disse: — Il mese scorso sono andato a visitare il luogo dell’impatto. — Intendeva dire, il punto dove Vera Kelland era precipitata. — Là ci sono alberi che sembrano vecchi come il mondo.
— È passato moltissimo tempo.
— Non so cosa mi aspettassi… Una specie di bagliore dorato, forse. Un luccichio che indicasse dov’era sepolto il mio cuore. Ma noi siamo ben piccole creature, e al cosmo non interessa. Non c’era nessuna traccia. — Sospirò. — Volevo misurarmi contro il mondo. Così, ho ucciso ciò che avrebbe potuto trattenermi.
— Eravamo gente diversa, allora.
— No. Pensavo di poter cambiare me stesso… pensavo che con te morto, oltre a Vera, sarei stato una lavagna pulita, una macchina per l’ambizione pura… Ho tentato di conquistare il potere sopra l’amore. Volevo ogni cosa in ceppi. Ho cercato, infatti, di mettere tutto in ceppi… ma i ceppi si sono rotti per primi.
— Capisco — annuì Lindsay. — Anch’io ho imparato il potere dei progetti, dei piani. L’ambizione della mia vita mi attende su Europa. — Riprese il pieghevole. — Potrebbe essere anche la tua. Se la vuoi.
— Ti ho detto nel mio messaggio che ero pronto a morire — replicò Constantine. — Tu vuoi sempre schivare le cose, Abelard. Noi risaliamo indietro di molto, di troppo… perché parole come “amico” o “nemico” possano avere significato… Non so come chiamarti, ma ti conosco. Ti conosco meglio di chiunque altro, meglio di quanto tu conosca te stesso. Quando ti troverai a dover affrontare la consumazione, ti farai da parte. So che lo farai. Non vedrai mai Europa.
Lindsay chinò la testa.
— Deve finire, Abelard. Io mi sono misurato contro il mondo, è per questo che sono vissuto. E ho proiettato una grande ombra. Vero?
— Sì, Philip. — La voce di Lindsay suonò soffocata. — Anche quando ti ho odiato maggiormente, ero orgoglioso di te.
— Ma misurare me stesso contro la vita e la morte, come se potessi andare avanti per sempre… Non ce dignità in questo. Cosa siamo noi per la vita? Siamo soltanto scintille.
— Scintille che danno inizio a un falò, forse.
— Sì. Europa è il tuo falò, ed io te lo invidio. Ma se andrai su Europa, tu finirai per smarrirtici. E non potresti sopportarlo.
— Ma tu potresti farlo, Philip. Potrebbe essere tua. La tua gente sarà là. Il clan dei Constantine.
— La mia gente… sì. Tu li hai cooptati.
— Avevo bisogno di loro. Mi serviva il tuo genio… E loro sono venuti da me spontaneamente.
— Sì… Alla fine la morte ci sconfigge. Ma i nostri figli sono la nostra vendetta contro di essa. — Sorrise. — Ho cercato di non amarli, volevo che fossero come me, tutto acciaio e bordi affilati. Ma li ho amati lo stesso… non perché erano come me, ma perché erano diversi. E quelli più diversi di tutti li amavo di più.
— Vera?
— Sì. L’ho creata dai campioni che ho rubato qui, nella Repubblica. Squame di pelle. Genetici di coloro che amavo… — Fissò Lindsay con aria implorante. — Cosa puoi dirmi di lei, Abelard? Come sta tua figlia?
— Mia figlia…
— Sì. Tu e Vera eravate una coppia splendida… Pareva un peccato che la morte dovesse inaridirvi. Anch’io amavo Vera; volevo proteggere il suo bambino, e il bambino dell’uomo scelto da lei. Così, ho creato tua figlia. Ho sbagliato a farlo?
— No — rispose Lindsay. — La vita è comunque migliore.
— Le ho dato tutto quello che potevo. Come sta?
Lindsay provò una sensazione di vertigine. Sotto di lui, il robot infilò un ago nella gamba insensibile. — Adesso è nei laboratori. Sta subendo la trasformazione.
— Ah, bene. Fa le sue scelte. Come tutti dobbiamo farle. — Constantine allungò la mano sotto la sua sdraio. — Qui ho del veleno. Me lo hanno dato gli inservienti. Ci concedono il diritto di morire.
Lindsay annuì distratto, mentre i farmaci calmavano le pulsazioni del suo cuore. — Sì — disse. — Ci meritiamo tutti quel diritto.
— Potremmo fare una passeggiata fino al punto dell’impatto, tu ed io. E bere il veleno. Ce n’è abbastanza per due. — Sorrise. — Sarebbe bello avere compagnia.
— No, Philip, non ancora. Mi spiace.
— Ancora nessun impegno, Abelard? — Constantine gli mostrò una fiala di vetro piena d’un liquido brunastro. — Fa lo stesso. Ho problemi di deambulazione. Ho problemi con le dimensioni, fin dai… dai tempi dell’Arena. È per questo che mi hanno dato dei nuovi occhi. Gli occhi vedono le dimensioni per me. — Svitò il tappo della fiala con le dita nodose. — Adesso vedo la vita per quello che è. È per questo che devo farlo. — Si portò il veleno alle labbra e lo inghiottì. — Dammi le mani.
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