Un intero ecosistema, più antico dell’umanità, era ammassato in quei luoghi, con tutta la sua miracolosa ricchezza. Una vita che poteva venir catturata, che poteva essere di Europa.
Dapprima, lui aveva respinto quell’idea: l’Interdetto era sacro. Antico come la colpa taciuta degli ancestrali viaggiatori spaziali, i quali avevano disertato la Terra quando si era profilato il disastro. Con la loro diserzione avevano derubato il pianeta proprio di quell’esperienza che avrebbe potuto salvarlo. Nel corso di secoli di vita nello spazio quella colpa era affondata nella buia regione della coscienza culturale, emergendo soltanto come una caricatura, come un rituale diniego e una deliberata ignoranza.
Il commiato era avvenuto nell’odio: con quelli nello spazio bollati come ladri antiumani, e il governo di emergenza della Terra denunciato come una barbarie fascista. L’odio aveva reso le cose più semplici… più semplici poiché aveva permesso a quelli nello spazio di scrollarsi di dosso ogni responsabilità, più semplici poiché aveva permesso alla Terra di affamare la miriade delle proprie culture riducendole a un unico grigio regime di penitenza e inutile stabilità.
Ma la vita si muoveva in clade. Lindsay lo sapeva come dato di fatto. Una specie che avesse avuto successo esplodeva sempre in un’ondata gioiosa di specie discendenti, di mostri che rendevano inefficienti e superati i loro antenati. Negare il mutamento significava negare la vita.
Da quel segno, lui sapeva che l’umanità sulla Terra era diventata un relitto.
A lungo termine, il vasto panorama biologico era diventato l’ossessione di Lindsay, la ruggine che avrebbe divorato qualunque cosa che non fosse stata capace di muoversi. Il futuro della Terra non apparteneva all’umanità ma alle erbe mostruose, divenute strane e legnose, e a qualunque piccola creatura veloce che saltasse e crescesse fra esse. E Lindsay sentiva che c’era giustizia in questo.
Sprofondarono nel buio.
La pressione non significava niente per il loro scafo alieno. I sacchi-di-gas prosperavano in pressioni estreme che facevano sembrare quelle degli oceani della Terra esili come il plasma. Pilota passò ai propulsori ad acqua aderenti all’esterno dello scafo. Attivò il radar ad ampia apertura, e i loro videopannelli s’illuminarono mostrando i contorni verdi e nitidi del fondo abissale.
Il cuore di Lindsay fece un balzo quando vide la familiare geologia.
— Proprio come Europa — mormorò Vera. Stavano fluttuando sopra un’estesa faglia in tensione, dove il basalto vulcanico si era spezzato e squarciato con blocchi impervi che sporgevano verso l’alto, quella fessurata violenza primeva incontaminata dal vento o dalla pioggia. Montagne rettilinee, appena spolverate da trasudazioni organiche, strapiombavano in precipitosi dirupi mozzafiato, dove le linee dei contorni si affollavano come i denti di un pettine.
Ma qui la spaccatura era morta. Non videro nessun segno di energia termale.
— Segui la faglia — disse Lindsay. — Cerca dei punti caldi. — Era vissuto troppo a lungo per essere impaziente, perfino in un momento come quello.
— Devo attivare i motori principali? — chiese Pilota.
— Facendo ribollire l’acqua per molte miglia intorno? Siamo in profondità, Pilota. Quell’acqua è come acciaio.
— Davvero? — Pilota produsse una ronzante vibrazione elettronica. — Bene, preferisco non avere stelle, piuttosto che averle offuscate.
Seguirono la spaccatura per ore, senza trovare un’infiltrazione lavica. Vera dormiva; Lindsay sonnecchiò brevemente, il sonno da gatto di un vecchio. Pilota, che dormiva soltanto in occasioni ufficiali e ben definite, li svegliò.
— Un punto caldo — annunciò.
Lindsay esaminò il suo pannello. Gli infrarossi mostravano una pigra fonte di calore che saliva dalle profondità di una roccia sporgente: questa era estremamente bizzarra, un lungo piano inclinato di levigatezza euclidea, il quale emergeva improvviso da una distesa trasudante di terre marce di composizione mista. Una collina angolosa alla base del dirupo giaceva stranamente distorta, quasi accartocciata, in cima ad una elevazione lavica a forma di cupola. — Manda fuori il fuoco — disse Lindsay.
Vera estrasse i comandi del robot da sotto il suo seggiolino e s’infilò un paio di teleoculari.
Con i fari sfavillanti, il robot tornò facilmente verso l’anomalo dirupo. Lindsay sintonizzò i comandi del suo pannello sugli ottici del robot.
Il dirupo inclinato era dipinto. C’erano strisce bianche su di esso, lunghe pennellate che si stavano staccando, una specie di linea divisoria. — È un relitto — esclamò Lindsay, a un tratto. — Costruito dall’uomo.
— Non può essere — replicò Vera. — Ha le dimensioni d’una grande nave spaziale. Dentro, ci sarebbe posto per migliaia di persone.
Ma poi comparve qualcosa che risolse la questione. Una macchina era attaccata a una liscia superficie sporgente simile a un ponte su quel simulacro di nave. I secoli avevano corroso il manufatto, ma i suoi contorni erano chiari. — È un aereo — disse Pilota. — Aveva getti. Questo era una specie di spazioporto acquatico. Un aeroporto piuttosto.
Una chimera, un pesce abissale dalla lunga coda e dalla testa ottusa, grosso quanto l’avambraccio di un uomo, schizzò via lungo l’ampio ponte della portaerei, alla ricerca di un rifugio. Scomparve attraverso uno squarcio del relitto dai molteplici piani della torre di comando. Il robot si arrestò di botto. — Aspetta — disse Vera. — Se questa è una nave, da dove viene il calore?
Pilota esaminò gli strumenti. — È calore radioattivo — rispose. — È insolito.
— Energia da fissione — spiegò Lindsay. — Dev’essere affondata con una pila nucleare a bordo. — Seppe frenarsi e non aggiungere che, forse, dentro lo scafo avrebbero potuto esserci anche armi atomiche.
Vera disse: — La mia strumentazione indica la presenza di sostanze organiche disciolte. Delle creature sono raccolte intorno alla pila nucleare per goderne il calore. — Azionò le braccia rinforzate del robot, facendogli lacerare una paratia. La lega corrosa cedette facilmente, sollevando un fiotto di ruggine. — Devo inseguirle?
— No — rispose Lindsay. — Voglio il primordiale.
Vera riportò il fuoco nella stiva del loro vascello. Proseguirono a balzi e a scosse. Il tempo passò, il terreno scivolava sotto di loro… uno spettacolo che fino a poco tempo prima avrebbero giudicato orribile. Lindsay si scoprì a pensare di nuovo a Czarina-Kluster. Talvolta lo turbava il fatto che la disperazione, le sofferenze, che venivano patite laggiù, significassero così poco per lui. Czarina-Kluster stava morendo, la sua eleganza si stava dissolvendo nello squallore, il suo delicato, raffinato equilibrio veniva lacerato, i frammenti venivano scagliati come semi attraverso la Matrice Disaggregata. Era malvagio da parte sua accettare il fiore della morte, nella speranza che vi fossero dei semi.
No, non riusciva a convincersi che lo fosse. Il tempo umano non significava più niente per lui. Voleva soltanto che la sua volontà lasciasse il segno, che proiettasse la sua luce lungo quegli sterminati eoni, in un mondo risvegliato, in un pianeta ricondotto irrevocabilmente alla vita. E poi… poi avrebbe potuto mollar tutto, per sempre.
— Ecco — disse Pilota.
L’avevano trovato. L’apparecchio discese.
La vita sorgeva tutt’intorno a loro: una giungla che proliferava anche nell’assenza completa del sole. Alle luci del robot, le ripide e abrasive pareti della valle avvampavano d’una vivida panoplia di colori: scarlatto, bianco-gesso, oro-zolfo, verde ossidiana. Come macchie di bambù, i vermi ondeggiavano sui fianchi delle colline, più alti di un uomo. Le rocce erano ricoperte da un fitto strato di bivalvi, i gusci bianchi spalancati che mostravano carni rosse come il sangue. Spugne purpuree pulsavano, coralli abissali si stendevano in neri boschetti ramificati, le loro braccia sottili ingioiellate di polpi.
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