Fu colto dall’estasi. Premette il viso contro l’albero, singhiozzando in preda al delirio, lacerato da una profonda trance visionaria.
A mano a mano che la sua mente si riorganizzava, cominciò a essere assalito da intuizioni, entrando lentamente in simbiosi con quell’essere vivente.
Una gioia inarrestabile lo pervase quando si unì alla sua serena integrazione.
Quando gridò per chiedere aiuto, due giovani plasmatori che indossavano la bianca uniforme ospedaliera risposero alle sue grida. Prendendolo per le braccia, lo aiutarono ad attraversare barcollando il prato e a superare l’ingresso di pietra della clinica.
Lindsay aveva la lingua bloccata. I suoi pensieri erano limpidi, ma le parole non volevano venire. Riconobbe l’edificio: era la dimora dei Tyler. Era di nuovo nella Repubblica. Avrebbe voluto parlare agli infermieri, chieder loro come aveva fatto a tornarci, ma il cervello non riusciva a rimescolare ordinatamente il suo vocabolario. Sulla punta della sua lingua le parole aspettavano angosciosamente di venir pronunciate.
Lo condussero attraverso un atrio pieno di modelli e di reperti racchiusi nel vetro. L’ala sinistra della dimora con la sua serie di camere da letto, era stata spogliata, ridotta al puro legno lucido, e poi riempita di attrezzature mediche. Lindsay fissò impotente il volto dell’uomo alla sua sinistra. Aveva la grazia sciolta di un plasmatore e gli occhi concentrati e attenti di un superintelligente.
— Lei è… — esplose d’un tratto Lindsay.
— Rilassati, amico. Sei al sicuro. Il dottore sta per arrivare. — Sorridendo, vestì Lindsay d’un camice dalle ampie maniche, allacciandoglielo dietro le spalle in un tranquillo agitare di nodi. Lo fecero sedere sotto un analizzatore cerebrale. Il secondo infermiere gli porse un inalatore.
— Annusa questo, cugino. È glucosio tracciante. Radioattivo. Per l’analizzatore. — Il superintelligente diede un affettuoso buffetto alla cupola del macchinario. — Dobbiamo esaminarti. Voglio dire, dritto fin nel nucleo.
Obbediente, Lindsay inspirò l’aerosol. Aveva, appunto, un odore dolce. L’analizzatore si calò ronzando lungo il binario del suo supporto verticale, sistemandoglisi intorno alla sommità del cranio.
Una donna entrò nella stanza. Aveva con sé uno strumento racchiuso in un astuccio di legno e indossava un ampio camice medico, una gonna corta e stivali di plastica infangati.
— Ha parlato? — chiese la donna.
Lindsay riconobbe la linea genetica. — Juliano — compitò con difficoltà.
Lei gli sorrise, aprì l’astuccio di legno con un cigolio di antichi cardini. — Sì, Abelard — annuì. Gli rivolse un’occhiata.
— Margaret Juliano — disse Lindsay. Non era riuscito a interpretare l’occhiata, e quell’incapacità fece rinascere in lui, all’improvviso, un ricordo di energia e di paura. — I cataclisti, Margaret. Ti avevano messo sotto ghiaccio.
— Proprio così. — La donna infilò la mano dentro l’astuccio e tirò fuori un dolce bruno scuro in un piccolo involucro di carta pieghettata. — Vuoi un cioccolatino?
La bocca di Lindsay si riempì di saliva. — Per favore — lui disse di riflesso. Lei gli cacciò il dolcetto in bocca. Era di un dolce nauseante. Lo masticò con riluttanza.
— Andate via — ordinò Margaret, rivolta ai due tecnici. — Me ne occupo io. — I due superintelligenti se ne andarono sogghignando.
Lindsay inghiottì.
— Un altro? — lei gli chiese.
— Non ho mai avuto una gran passione per i dolciumi — rispose Lindsay.
— È un buon segno — annuì lei, chiudendo l’astuccio. Poi esaminò lo schermo dell’analizzatore e tirò fuori una penna-luce dal folto della sua bionda capigliatura, che le ricadeva sciolta sulle orecchie. — Questi cioccolatini sono stati al centro della tua vita per gli ultimi cinque anni.
Lo shock fu brutto, ma lui sapeva che sarebbe venuto. Si sentì la gola secca. — Cinque anni?
— Sei fortunato che te ne siano rimasti — proseguì Margaret. — È stata una lunga cura: restaurare un cervello alterato da dosi massicce di PDKL-95. Il tutto complicato da mutamenti nella tua percezione spaziale, causati dal manufatto Arena. È stata una vera sfida. E costosa, per giunta. — Studiò lo schermo mordicchiando l’estremità della sua penna-luce. — Ma non ci sono problemi per questo. Il tuo amico Wellspring ha pagato il conto.
Lei era talmente cambiata da fargli quasi provare una sensazione di vertigine. Era difficile riconciliare la disciplinata pacifista della Congrega di Mezzanotte, Margaret Juliano, di Goldreich-Tremaine, con questa donna calma, trasandata, con chiazze d’erba sulle ginocchia e i capelli lunghi e incolti.
— Non sforzarti di parlare troppo — gli disse. — Il tuo emisfero destro si sta occupando delle funzioni del linguaggio attraverso le associazioni successive. Possiamo aspettarci neologismi, idiotismi, povertà intrinseca del lessico… non allarmarti. — Cerchiò qualcosa sullo schermo con la penna-luce e premette un tasto di controllo: sezioni trasversali del suo cervello scivolarono sullo schermo nei toni falsi di un azzurro e un arancione molto vividi.
— Quanta gente c’è in questa stanza? — gli chiese.
— Tu ed io — rispose Lindsay.
— Nessuna sensazione di qualcuno dietro di te, sulla sinistra?
Lindsay si torse per guardare, raschiandosi dolorosamente la testa su una prominenza interna dell’apparecchiatura. — No.
— Bene, vuol dire che l’approccio dell’associazione era quello giusto. Talvolta nei casi di dicotomia del cervello ci ritroviamo con una frammentazione della coscienza, un’immagine fantasma che guarda dall’alto l’io percettivo. Fammi sapere se avverti qualcosa del genere.
— No. Ma all’esterno ho sentito… — Avrebbe voluto dirle dell’istante in cui il risveglio era arrivato improvviso, della sua lunga introspezione epifanica nell’io e nella vita. La visione avvampava ancora dentro di lui, ma il vocabolario per descriverla era completamente al di fuori delle sue possibilità. Seppe d’un tratto che non sarebbe mai stato capace di raccontare a nessuno tutta la verità. Era qualcosa che non avrebbe mai potuto essere racchiuso in parole.
— Non lottare — intervenne Margaret. — Lascia che venga da solo. C’è tempo in abbondanza.
— Il mio braccio — disse Lindsay, tutt’a un tratto. Si rese conto, in preda alla confusione, che il suo braccio destro, quello metallico, era diventato di carne. Sollevò quello sinistro. Era metallico. L’orrore ebbe il sopravvento su di lui. Si era rovesciato come un guanto!
— Attento — disse Margaret. — Potresti avere qualche problema con le percezioni spaziali, la sinistra e la destra. È un effetto della dominanza associativa. E hai avuto un ringiovanimento. Abbiamo fatto un sacco di lavoro su di te durante gli ultimi cinque anni. Giusto per segnare il passo.
La noncurante facilità con cui lo disse lasciò stupefatto Lindsay. — Sei Dio? — le chiese.
Margaret scrollò le spalle. — Ci sono stati dei successi, Abelard. Molte cose sono cambiate. Socialmente, politicamente, in campo medico… Oggi è tutta la stessa cosa, lo so, ma considerala come un’autorganizzazione spontanea, un balzo prigoginico verso un nuovo livello di complessità…
— Oh, no — disse Lindsay.
Lei batté la mano sull’analizzatore, e questo si sfilò dalla sua testa muovendosi verso l’alto, ronzando. Margaret prese posto davanti a lui su un’antica sedia da ufficio di legno, piegando una gamba sotto di sé. — Proprio sicuro di non volere un cioccolatino?
— No!
— Ne prendo uno io, allora. — Ne tirò fuori uno dall’astuccio e gli diede un morso, masticando poi felice. — Sono buoni. — Parlava senza affettazione, con la bocca piena. — Questo è uno dei buoni periodi, Abelard. È per questo che mi hanno scongelato, credo.
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